Senegal, il muro verde che vince sul deserto
Fino al 1973, il nord del Senegal, al confine con il Sahara, era terra verde; acacie, baobab e datteri ombreggiavano l’erba per gli animali e spesso piccoli orti, poi è venuto il deserto. Ma non è stato il Sahara ad avanzare, gli esperti l’hanno detto più volte, lui resta dov’è, a guardare l’uomo che fa il suo deserto, tagliando alberi, aumentando il bestiame, sprecando l’acqua anche dov’è scarsa, creando aree desolate e senza vita che non sono il Sahara. È un micidiale circolo vizioso che si auto alimenta: meno piante, meno CO2 catturata, meno umidità, meno pioggia, e questo porta a temperature più alte (fino a 2 gradi in più registrati) e siccità diffusa.
Fu nel 2005 che l’allora presidente Abdoulaye Wade, con quello nigeriano Obasangjo, che ebbero l’idea: creare una barriera verde che fermasse il deserto e strappasse le terre a quel flagello, il Great Green African Wall. Subito s’accodarono l’African Union Commission e la Fao, con l’aiuto finanziario (1 mld di $) della Banca Mondiale e del Global Environment Facility, oltre che di altri Enti internazionali.
È nato un piano ambizioso; sono almeno 13 gli Stati a rischio grave nella fascia del Sahel, dall’Atlantico al Mar Rosso. Sono economie fragili, le loro popolazioni dipendono per l’83% dai frutti della terra, ma almeno il 40% di essa è degradata e la percentuale è in crescita. Il progetto prevede di creare una fascia verde lunga 7.500 km e larga una quindicina che attraversi l’intera Africa da ovest a est, dal Senegal a Gibuti; non è un muro, è l’uomo che ripara i suoi danni, ripristinando bio diversità, condizioni climatiche e sicurezza alimentare per le popolazioni, Nora Berrahmuoni, responsabile della Fao per il progetto, lo dice chiaro.
Investitori e sfruttamento
Certo, è una sfida difficile coordinare 13 Paesi in un’area interessata da crisi spaventose; alcuni di essi hanno definito i loro piani ed hanno incominciato ad agire, altri sono in ritardo (Egitto, Algeria, Mauritania e Sudan ad esempio), e c’è da vincere ostacoli notevoli, diffidenze, corruzione e la voracità di investitori stranieri, soprattutto cinesi, che vogliono campo libero per sfruttare la terra.
Ma dove s’è operato i risultati sono venuti, e tanti, non solo per le ripristinate condizioni ambientali, ma perché accanto ad esse, con l’utilizzo di tecnologie meccaniche ispirate alle tecniche tradizionali secondo il metodo Vallerani (sono già 50mila gli ettari interessati), il territorio agro – silvo – pastorale è risorto, e sono stati creati un’infinità di “giardini polivalenti” capaci di sfamare la popolazione. Così i progetti pilota si sono moltiplicati lungo tutta la “Muraglia” progettata, dando speranza, e soprattutto sviluppo, a gente condannata alla fame.
Anche l’antico ecosistema delle oasi dipende da questa iniziativa: la delicata catena di paradisi verdi lungo le piste carovaniere che da tempo immemorabile legava l’Atlantico al Mar Rosso è minacciata, rischia il collasso sotto l’impatto dei cambiamenti climatici, ma dove s’è intervenuto si vedono i primi risultati.
Senegal Paese all’avanguardia
Il Paese che è all’avanguardia è il Senegal; ha già il suo piano e 26mila ettari sono stati rigenerati, mettendo a dimora 11 milioni di piante (e i tecnici assicurano che almeno sette su dieci sopravvivono sviluppandosi), e ha creato molti di quei “giardini polivalenti” con mandarini, gogaya, manghi, cedri e altre piante, mentre altri campi prendono vita, permettendo raccolti e allevamenti. Le popolazioni vedono i risultati e, secondo quanto riferito dai funzionari del piano, le donne curano le piante come figli. Sono la loro nuova vita.
Ma ormai sono tanti i progetti avviati in Paesi che hanno tutto da guadagnare: il Ciad ha perso quasi tutta la vegetazione a nord del 5° parallelo; il Mali, che ogni anno perde 500mila ettari per disboscamenti indiscriminati, ha stanziato, dai suoi magrissimi bilanci, 514 ml di $, il Niger addirittura 838 e per Paesi come l’Eritrea (arida al 70%) o l’Etiopia (a rischio desertificazione per il 75%) è una carta obbligata; anche per l’Egitto, che ha visto calare la sua produttività agricola di circa il 30% nell’Alta Valle del Nilo.
Il percorso da fare è ancora tanto, tantissimo, e occorreranno decenni per portarlo a compimento, ma che si sia iniziato, e che buoni risultati siano già venuti, è il segno netto che si può agire e che il degrado non è irreversibile.
di Salvo Ardizzone