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Nel pantano ucraino rischia di esplodere un nuovo conflitto

di Salvo Ardizzone

Sono passati già tre mesi dagli accordi di Minsk 2, ma il negoziato per giungere a un accordo fra le parti continua a segnare il passo, per la scarsa volontà (o meglio, nulla) di Kiev di trovare un’intesa sui punti critici: il grado di autonomia delle regioni del Donbass e i loro poteri. D’altronde, le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk non potrebbero accettare di essere integrate in uno Stato il cui vero obiettivo è l’adesione alla Nato, piuttosto che l’irrealistico ingresso nella Ue, vista la disastrosa situazione economica.

Lo si è visto chiaro nella recente visita a Kiev dello stato maggiore di Bruxelles al gran completo: molte parole di circostanza per dire che, al di là di un partenariato, Bruxelles non intende andare.

L’Ucraina è un Paese fallito, spolpato all’inverosimile da un gruppo di oligarchi che controllano tutte le attività economiche e che non intendono permettere quelle riforme che, allo stato dei fatti, oltre ad essere dolorosissime per la popolazione, sarebbero inutili senza un’incalcolabile montagna di aiuti. Figurasi se i vari Stati della Ue siano disposti a dissanguarsi per Kiev, perché di questo si tratterebbe.

In realtà, Poroshenko–Yatseniuk hanno scommesso tutto sull’appoggio Usa e dei suoi satelliti, salvo scoprire d’aver fatto il passo troppo lungo. Ora, però, non possono tornare indietro e sono costretti da chi li tiene in piedi a continuare sulla strada suicida che sta portando l’Ucraina intera a un tracollo sanguinoso.

Con simili premesse, gli accordi di Minsk 2 non potevano condurre a risultati politici sostanziali; era Kiev ad averne un disperato bisogno dal punto di vista militare: con il meglio delle sue truppe imbottigliate nella sacca di Debaltseve e una pressione crescente contro il porto di Mariupol, che rischiava di cadere spalancando la via per la Crimea, era sul punto di crollare.

Ottenuto il cessate il fuoco, ha evacuato i resti dei reparti in rotta da Debaltseve, continuato a rafforzare le difese di Mariupol e avviato un intenso programma d’addestramento delle Forze di Sicurezza gestito da istruttori Usa (290), Canadesi (200) e Britannici (a breve 75). È ancor più significativo che i “consiglieri militari” istruiscano gli uomini della Guardia Nazionale (alla dipendenza del Ministero degli Interni) invece che le Forze Armate. Il motivo è semplice: si tratta di volontari di orientamento nazionalista e peggio, in piena sintonia con i progetti revanscisti di Kiev.

Dalla firma del cessate il fuoco, sul campo è stato uno stillicidio di scontri e provocazioni, a cui i separatisti hanno ovviamente risposto colpo su colpo; una guerra a bassa intensità che in tre mesi ha mietuto, solo fra le forze di Kiev e senza tener conto del pesante prezzo di sangue fra i civili, oltre 100 morti e almeno 500 feriti. Insomma, si tratta a malapena di una tregua, in attesa di una nuova escalation del conflitto pronta a scattare se e quando dovesse servire a Washington, per sabotare le timide prove di distensione che cominciano già a intravedersi fra diversi Paesi europei e la Russia.

Putin, dal canto suo è preparato: non solo ha addestrato ed equipaggiato le forze separatiste, che non sono più l’accozzaglia di bande dell’estate scorsa, ma, per evitare sorprese, tiene a disposizione a ridosso del fronte almeno 8 Btg (Battalion Tactical Group, gruppi di combattimento autonomi multiarma), nel caso di sviluppi improvvisi.

Una ripresa delle ostilità, a cui Kiev potrebbe essere spinta dalle convenienze di Washington di riattizzare il conflitto a prescindere dalle possibilità di successo di cui nulla gli importa, vedrebbe i separatisti puntare a nord, sulle città di Kramatorsk e Arteminsk coi loro aeroporti e le industrie meccaniche e motoristiche che fornivano l’industria militare russa; a sud, travolta Mariupol, realizzerebbero il congiungimento con la Crimea attualmente isolata, con Kiev che impedisce anche i rifornimenti di acqua.

È un’altra tragedia che si prepara, e stavolta probabilmente definitiva; un bagno di sangue voluto dai disegni egemonici di Washington a i cui satelliti/sudditi europei sanno solo inchinarsi.

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