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Usa: le lobby “tradizionali” riprendono il controllo del Congresso

di Salvo Ardizzone

Il 6 gennaio s’è insediato il 114° Congresso degli Stati Uniti; il primo a completo controllo repubblicano sia alla Camera che al Senato dal 2005, dopo la vittoria schiacciante del Grand Old Party nelle elezioni di midterm del 2014. Per l’Amministrazione Obama saranno due anni difficili, ma il Presidente ha già fatto sapere che non intende fare “l’anatra zoppa”, ostaggio di un Congresso ostile, ed è pronto a utilizzare il suo diritto di veto sulle leggi approvate. Con questi presupposti, si prepara il braccio di ferro sulla riforma sanitaria e sull’immigrazione, con sullo sfondo la normalizzazione dei rapporti con Cuba e la definizione della trattativa sul nucleare iraniano.

Il fatto è che, dopo otto anni, le lobby e i gruppi di potere tradizionali, che hanno spadroneggiato a Washington coagulandosi attorno alle esecrabili presidenze dei Bush, hanno ripreso il pieno controllo del Congresso e premono per ritornare all’antico, liquidando le esitazioni e le timide aperture dell’era Obama. Che questo sia il programma è avvalorato dalla prossima candidatura alle presidenziali dell’ennesimo rappresentante di quella dinastia, Jeb Bush, che ha già lanciato su Facebook un Pac, un comitato politico per la raccolta di fondi per la campagna elettorale.

La guerra ai tanti dossier contro i loro interessi verrà ora portata avanti da posizioni di forza, e il confronto sarà assai più aspro che in passato, perché sanno bene che il mondo è in rapido cambiamento e questa è forse l’ultima occasione che hanno per bloccare le lancette della Storia, tentando di restaurare vecchi sistemi di potere. Nel Golfo, in Palestina, in Medio Oriente e nell’America Latina, faranno di tutto per riaffermare il loro imperialismo, tentando di distruggere tutto ciò che non riusciranno più ad assoggettare. Resta lo scoglio di possibili veti presidenziali e della strategia da approntare per superarli.

La prova generale si prepara già nei prossimi giorni col voto sull’oleodotto Keystone XI, destinato a portare greggio da sabbie bituminose dall’Alaska alle raffinerie del Golfo del Messico ed osteggiato dall’Amministrazione Obama per i notevoli rischi ambientali. Un veto presidenziale lo bloccherebbe e per superarlo sarebbe necessaria una maggioranza di due terzi che i repubblicani non hanno; ma mettere il veto, tradizionalmente, si traduce in un calo vistoso di popolarità per il Presidente che lo pone e per i parlamentari che l’appoggiano, così la maggioranza repubblicana vuole attirare quei democratici che non intendono “sacrificarsi” per le politiche di Obama (sono in molti che già si raggruppano dietro Hillary Clinton).

Se il meccanismo dovesse riuscire, la via per far passare i dossier più controversi superando il veto presidenziale sarà spianata, Riyadh e Tel Aviv festeggeranno e i lupi di Wall Street stureranno lo champagne, tutti in attesa dell’elezione di un altro Bush, per apparecchiare altre clamorose porcherie globali grondanti di sangue e di petrolio.   

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