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Palestina: i “processi di pace” legittimano l’occupazione

Palestina – “Non si tratta di preservare lo status quo. Dobbiamo creare uno Stato dinamico, orientato all’espansione” – David Ben Gurion

Dall’occupazione dei territori palestinesi in seguito alla guerra dei sei giorni, nel Giugno del 1967, Israele ha cercato di alterare la composizione demografica di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, trasferendo parte della propria popolazione con l’intenzione di motivare un’annessione totale delle aree palestinesi ed impedire la creazione di uno Stato Palestinese indipendente. Dal 1967 sono state costruite più di trecento colonie, dove vivono attorno ad un milione di coloni, in una chiara violazione dell’Articolo 47 della quarta convenzione di Ginevra nel 1949, firmata da Israele nel 1951, che avverte che “la potenza occupante non potrà deportare o trasferire parte della propria popolazione civile nei territori che occupa”.

La situazione finale di queste colonie è diventata uno dei maggiori ostacoli per qualsiasi soluzione pacifica del problema del Medio Oriente. Contrario a tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite, Israele considera che il mantenimento della sovranità ebraica sui territori palestinesi, così come la preservazione delle colonie, deve essere la base di ogni accordo finale con i palestinesi. Dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993, Israele ha aumentato la sua attività nelle colonie e incoraggiato l’immigrazione ebraica in Israele, in chiara contraddizione con tutte le disposizioni internazionali, dimostrando la sua intenzione di seguire la politica colonizzatrice praticata sin dall’inizio della sua presenza in Palestina. E’ difficile, comunque, comprendere bene la situazione attuale senza rivedere tutti i cambiamenti avvenuti dalla guerra di giugno.

Dal 1967 fino ai nostri giorni, la costruzione di colonie è stata condizionata da fattori strategici, economici e demografici. La pietra angolare della politica di colonizzazione è il denominato “Piano Allon” (1967), un documento non ufficiale che è stato preso come riferimento dai successivi governi israeliani fino al giorno d’oggi. La colonizzazione inizia con la confisca delle proprietà palestinesi applicando la legge 5709 del 1949, che concedeva al Ministro dell’Agricoltura israeliano il potere “per assumere il controllo del territorio per garantirne la coltivazione” a condizione che non fosse già stato sfruttato; in questa maniera tutte le terre passarono (illegalmente) nelle mani dello Stato di Israele, fiduciario della comunità ebraica. La percentuale di queste terre corrisponde a circa il 70% della Cisgiordania. In questa maniera si cerca di isolare la popolazione araba palestinese, sfruttare le risorse acquifere della Cisgiordania, lo sfruttamento agricolo della fertile valle del Giordano e impedire la possibile creazione di uno Stato Palestinese, con l’obiettivo finale di annettere tutto il territorio a Israele in un futuro non molto lontano.

Gran parte degli sforzi sionisti si concentrano nella colonizzazione di Gerusalemme Est. Dobbiamo ricordare che secondo il piano di partizione delle Nazioni Unite del 1947, la città rimaneva come un corpus separatum, una città internazionalizzata, che non si era in mano arabe né ebraiche.

Il 10 Giugno del 1967, quattro giorni dopo l’occupazione di Gerusalemme, le macchine demolitrici israeliane distrussero il quartiere arabo al-Mughrabi vicino al Muro del Pianto, un lavoro realizzato con tale fretta che un numero sconosciuto di abitanti arabi rimase sepolto sotto i detriti; il 28 Giugno, tre settimane dopo l’occupazione, l’amministrazione israeliana decide unilateralmente di ampliare i confini delle municipalità di Gerusalemme, che passò da 25 a 62 miglia quadrate, procedendo inoltre a separare i palestinesi di Gerusalemme dal resto degli abitanti della Cisgiordania, rilasciandogli documenti di identità israeliani; questo dopo averne espulsi 18.000 durante i primi mesi dell’occupazione. Dal primo momento, l’obiettivo era alterare l’equilibrio demografico della città con l’obiettivo di annetterla.

Israele intraprese un piano di colonizzazione intensiva di Gerusalemme Est con l’obiettivo di trasformare la città nella capitale non negoziabile dello Stato di Israele. Con il trionfo elettorale del Likud nel 1977 e l’ascesa di Begin e Sharon al potere, si intensificano i piani di giudaizzazione della città, ma si decide anche di accelerare la colonizzazione della Cisgiordania, che fino a quei momenti procedeva a passi molto lenti, creando una infrastruttura che faciliterà lo stabilimento di decine di migliaia di coloni provenienti dall’Europa, creando le condizioni necessarie per l’annessione della Cisgiordania a Israele, fatto che costituiva un passo in avanti verso il ristabilimento della Grande Israele (“Eretz Israel”).

Il Piano Drobles (1979) o il “Piano per lo sviluppo della colonizzazione della Giudea e della Samaria” (1979-1983), venne elaborato da Mattityahu Drobles su richiesta del Ministro dell’Agricoltura di quel tempo, Ariel Sharon; questo piano include i principali approcci precedenti e ritiene che le colonie israeliane non debbano essere limitate all’area della zona araba di Gerusalemme o della valle del Giordano, ma devono estendersi a tutti i luoghi necessari, con l’obiettivo di circondare completamente le popolazioni arabe di Cisgiordania con insediamenti civili e postazioni militari.

In uno dei paragrafi del “Piano Drobles” si può leggere: “i territori dello Stato e le terre non coltivate devono essere sequestrate immediatamente, al fine di colonizzare le zone tra le concentrazioni di minoranze (la popolazione palestinese) e i loro dintorni, con l’obiettivo di ridurre al minimo la possibilità che si sviluppi un altro Stato arabo nella regione. Sarà difficile per la popolazione minoritaria formare una continuità territoriale e un’unità politica quando sarà frammentata da insediamenti ebraici”.

Nel 1980 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva la risoluzione 478 che condanna la condotta di Israele di modificare il carattere fisico, la composizione demografica, la struttura istituzionale e lo status della Città Santa. In ripetute occasioni venne inoltre condannata la politica di colonizzazione: le risoluzioni 446 e 452 nel 1979 e la risoluzione 465 nel 1980 segnalavano che questi cambiamenti non avevano validità legale e costituivano un serio ostacolo per la pace, ma malgrado tutto questo, il governo israeliano continuò ad applicare la politica dei fatti compiuti, essendo fedele discepolo della politica di Hitler che disse nel Giugno del 1941: “Che la ragione sia con noi o no, dobbiamo vincere in tutte le maniere; e quando abbiamo vinto, chi ci chiederà conto dei metodi utilizzati?”

Nel 1987 i palestinesi si trovano già isolati da decine di colonie, diventando una minoranza assediata dai coloni. La caratteristica più importante del “Piano Drobles” è quella di aver creato l’infrastruttura necessaria per una futura colonizzazione intensiva e soprattutto di interrompere la continuità territoriale delle popolazioni palestinesi.

Israele mette in pratica una politica indirizzata a monopolizzare l’acqua esistente nel sottosuolo palestinese. Gli ordini militari 92/1967 e 57/1968 trasformano l’amministrazione militare in padrona assoluta delle riserve acquifere palestinesi, con conseguente ripercussione negativa sull’economia palestinese. La limitazione dell’estrazione dell’acqua, l’esclusione dei territori palestinesi dagli aiuti internazionali nel settore agricolo e la proibizione dell’uso di nuove tecniche di irrigazione condannano il produttore agricolo arabo al bisogno ed alla fame.

Alla fine degli anni Ottanta, e agli inizi degli anni Novanta, una serie di fatti segnano in maniera drammatica le relazioni israelo-palestinesi: lo scoppio dell’Intifada palestinese contro l’occupazione militare israeliana venne accompagnata dalla Perestrojka sovietica; entrambi i fatti avranno un’importante effetto nell’equilibrio delle forze in Medio Oriente. A partire dal 1990 Mosca decide di aumentare il numero di permessi di emigrazione concessi alla comunità ebraica sovietica e rafforzare la “aliya” (il ‘ritorno’ ebraico in Israele). Come risultato di questa politica, attorno ad un milione di ebrei sovietici si stabilisce in Israele. Vale la pena ricordare che gran parte di questa immigrazione si diresse verso le nuove colonie costruite in Cisgiordania con l’obiettivo di creare uno sconvolgimento definitivo nei territori palestinesi. A questi due grandi accadimenti c’è da aggiungere lo scoppio della Guerra del Golfo, che vide l’Iraq affrontare una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, che cambierà per il resto del decennio il bacio delle forze nella regione.

La Conferenza di Pace di Madrid

Dopo la Guerra del Golfo, gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele di partecipare ad una conferenza di pace regionale. Il Primo Ministro Yitzhak Shamir accetta di partecipare in maniera simbolica nella Conferenza di Madrid, ma dichiara che la colonizzazione è « un dovere sacro » e aggiunge: « abbiamo bisogno della terra di Israele e di un forte e potente Stato di Israele. Abbiamo bisogno di molta terra per accogliere tutti. Ogni emigrante può andare lì dove vuole ».

La Conferenza di Pace di Madrid, nell’ottobre-novembre del 1991, promossa dall’Amministrazione Bush (padre) sotto lo slogan di « pace per territori » segna l’inizio di questo processo di negoziazioni arabo-israeliano che continua fino al giorno d’oggi. Lo schema di negoziazioni che inizia a Madrid introduce necessariamente condizioni negative per l’adeguata soluzione del conflitto, per varie ragioni:

1. La negoziazione manca di un supervisore internazionale da parte delle Nazioni Unite e gli Stati Uniti si presentano come l’unico interlocutore del processo.

2. Le risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza che ordinano il ritiro incondizionato di Israele da tutti i territori occupati nel 1967 sono considerate come punto di inizio per le discussioni e non come il minimo indiscutibile e di compimento obbligato.

3. Nei documenti statunitensi preparati dalla Conferenza, i territori occupati (palestinesi, libanesi e siriani) sono denominati “territori contesi”.

4. In ultimo, sono esclusi i rifugiati palestinesi in Libano, Siria e Giordania e i palestinesi della diaspora, che costituiscono più della metà della popolazione palestinese.

Nel 1992 il partito Laburista riesce ad imporsi sul Likud nelle elezioni legislative. Il programma laburista sosteneva che non vi sarebbero state nuove colonie, ma nonostante queste dichiarazioni il Primo Ministro israeliano, Isaac Rabin, approvò durante i primi mesi della legislatura la costruzione di 9.850 unità familiari in Cisgiordania, 1.200 a Gaza e un numero simile nel Golan (territorio siriano occupato nel 1967). La colonizzazione con i laburisti superava l’epoca del Likud; vi era infatti un consenso completo all’interno dello scenario politico rispetto al diritto di Israele in Cisgiordania.

Dichiarazione di principi – Oslo I

Venti mesi dopo la Conferenza di Pace di Madrid, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Israele annunciavano che la diplomazia segreta di Oslo aveva prodotto come risultato un accordo bilaterale che verrà forgiato nella cosiddetta “Dichiarazione di Principi” che si riferisce all’autonomia palestinese. Documento che firmeranno a Washington il 13 di Settembre del 1993 Yasser Arafat in rappresentanza dell’OLP e il Primo Ministro israeliano Isaac Rabin, alla presenza del presidente statunitense Bill Clinton.

Il processo di negoziazione si caratterizzava per la combinazione di un solido formato pubblicitario e un ambiguo contenuto politico; i testi firmati da Arafat concedono a Israele pieno margine di manovra e trasformano l’Autorità Palestinese in sussidiaria del processo, con poca capacità di decidere e permettendo di paralizzare o arretrare il processo se la “sicurezza” o gli interessi di Israele vengono ritenuti minacciati.

L’immagine di quegli interlocutori alla pari, in una negoziazione equilibrata, incarnata dalla stretta di mano tra Rabin e Arafat alla Casa Bianca con la quale ebbe inizio il processo e il cui motto era “la pace dei coraggiosi” era scomparsa per sempre.

L’accordo stipula che Israele ritirerà il proprio esercito dalla striscia di Gaza e della città cisgiordana di Gerico come prima tappa di un processo transitorio di autonomia palestinese, alla quale sarebbe seguito un accordo definitivo sulla totalità dei territori occupati dal 1967.

La “Dichiarazione di Principi”, l’“Accordo di Oslo” o “L’Opzione Gaza-Gerico Prima”, o come si vuole che venga denominato il documento firmato a Washington, include nel suo testo le tre caratteristiche fondamentali che segnarono il successivo sviluppo della negoziazione palestino-israeliana, incluso il successivo fallimento:

a- Posticipare ad una tappa finale la negoziazione sullo statuto definitivo dei territori occupati e insieme a questo i temi centrali del conflitto: frontiere, sovranità, il futuro di Gerusalemme e lo smantellamento delle colonie israeliane a Gaza e in Cisgiordania.

b- L’ambiguità dei suoi contenuti ed obiettivi finali. Sebbene vi fosse un calendario che doveva concludersi nel Maggio del 1999, il documento è privo di uno schema concreto per risolvere il conflitto, non includendo il riconoscimento previo ed esplicito dei diritti nazionali palestinesi.

c- La sua reversibilità o la possibilità della sua paralizzazione, in funzione degli interessi e considerazioni di Israele, principalmente quelli relativi alla “sicurezza”, termine con il quale avrebbe giustificato ogni volta l’inadempimento degli accordi.

Facendo riferimento al testo del documento, bisogna evidenziare alcuni aspetti:

1- Israele non appare in nessun momento come forza o paese occupante. Al contrario, nel testo si nota una legittimazione del controllo di Israele su Gaza e Cisgiordania, apparendo esplicitamente come parte dei diritti acquisiti su questi territori. Per esempio, in relazione all’acqua, Israele riceve la garanzia de “l’utilizzo equo delle risorse comuni nella fase provvisoria e in quella successiva ad essa…sulla base dei diritti all’acqua di ogni parte…” (Paragrafo 1, dell’Annesso III della dichiarazione). Si noti che una risorsa naturale di un territorio sotto occupazione militare viene considerata comune all’occupante (Israele) e all’occupato (i palestinesi), avendo entrambi diritti riconosciuti su di essa.

2- Le competenze che gli israeliani trasferiscono al Consiglio Palestinese (successivamente denominato Autorità Palestinese) sono meramente amministrative (educazione, cultura, sanità, questioni sociali, imposte dirette e turismo), Articolo 6, Paragrafo 2, oltre ad una polizia palestinese per il controllo interno della popolazione palestinese. Negli annessi verbali aggiunti alla dichiarazione si segnala che la giurisdizione di questo Consiglio Palestinese non include “Gerusalemme, le colonie, siti militari e gli israeliani”…“il ritiro del governo militare israeliano da Gaza e Gerico non impedirà a Israele di esercitare i poteri e le responsabilità non trasferite al Consiglio Palestinese”.

Gli accordi di Oslo II

Il 28 Settembre 1995 Rabin e Arafat tornano a Washington per firmare gli accordi di Oslo II, o gli accordi di Taba, nome della città egiziana dove vennero siglati.

Gli accordi di Oslo II, elaborati il 24 Settembre e ratificati il 28 dello stesso mese a Washington, rivedono la situazione delle colonie. In linea generale, i nuovi accordi siglano la ritirata dell’esercito israeliano dalle zone urbane palestinesi, eccetto Gerusalemme Est, mantenendo il controllo della frontiera con la Giordania e la libertà di movimento totale all’interno della Cisgiordania. Per il resto, il territorio veniva diviso in tre zone. La zona A che comprendeva Gaza, Gerico e le principali città palestinesi di Cisgiordania, ad eccezione di Gerusalemme Est, e rappresenta il 7% del territorio di Cisgiordania, zona che rimaneva sotto il controllo civile e di polizia palestinese. La zona B, ossia la zona rurale che rappresenta il 24% del totale del territorio, sarebbe sotto l’amministrazione civile palestinese, ma la sicurezza sarebbe a carico di pattuglie miste israelo-palestinesi. La zona C, dove si trovano le colonie israeliane, le aree militari e le frontiere, che costituiscono quasi il 69% del territorio, rimangono sotto il pieno ed esclusivo controllo israeliano. In realtà “Oslo II” legittima la colonizzazione e in nessuno dei suoi paragrafi menziona la sua interruzione. Il Ministro degli Affari Esteri israeliano Shimon Peres segnalava poche settimane prima della firma dell’accordo che questo “lascia nelle mani israeliane il 73% della superficie del territorio, il 97% della sua sicurezza e l’80% dell’acqua”.Dopo la firma degli accordi gran parte dei problemi palestino-israeliani rimanevano insoluti.

Memorandum di Wye River

Il Documento Formale, o Memorandum di Wye River, firmato il 23 di ottobre 1998 da Arafat e Netanyahu negli Stati Uniti non conteneva nulla di nuovo. Il suo obiettivo è riaffermare e “facilitare la messa in pratica degli accordi precedenti”. Il Memorandum ci permette tuttavia di comprendere il processo iniziato a Oslo e dissipa le illusioni rimaste.

Il Memorandum River Wye si divide principalmente in due parti: “Nuovi ritiri” e “Sicurezza” e una terza sezione si occupa di questioni varie. Per il momento il 40% della Cisgiordania formerà parte della giurisdizione Palestinese totale (area A) o parziale (area B); Rabin approvava fino a “circa il 50%” poco prima di queste negoziazioni.

Certamente le diverse mappe del Likud e dei Laburisti sullo statuto finale rientrano tutte all’interno dei parametri del Piano laburista di Allon; la stampa israeliana ha informato nel corso degli anni riguardo al fatto che “c’è poca differenza tra i concetti di Netanyahu e Peres sugli accordi permanenti”. Certamente questa convergenza tra il Partito Laburista e il Likud pone in rilievo che il ritiro parziale era il massimo che Israele poteva accettare a Oslo.

River Wye rappresenta un passo indietro rispetto agli accordi precedenti. L’Accordo provvisorio israelo-palestinese conosciuto come Oslo II sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza del 1995 stipulava un “ritiro totale delle forze militari israeliane dall’area B” prima delle negoziazioni sullo status finale (articolo XIII), collocando il 30% della Cisgiordania nell’area A; ora non più. Le percentuali non sono tuttavia importanti. L’Autorità Palestinese, d’ora in poi, non esercita controllo reale in nessuna parte della Cisgiordania, se non come vicaria di Israele. Le disposizioni sulla sicurezza del Memorandum lo mettono in chiaro.

La sezione sulla sicurezza di River Wye, osserva inizialmente che “entrambe le parti riconoscono che è loro interesse vitale combattere il terrorismo e la violenza”. Ma per applicare questo protocollo, River Wye specifica un piano di azione solo per la parte palestinese: “La parte palestinese renderà pubblica la sua politica di non tolleranza del terrore e della violenza…Un piano di lavoro sviluppato da questa sarà condiviso con gli Stati Uniti…al fine di assicurare la lotta sistematica ed efficace contro le organizzazioni terroriste…Oltre alla cooperazione bilaterale sulla sicurezza israelo-palestinese, un comitato palestinese-statunitense rivedrà le misure da intraprendere per eliminare i gruppi terroristici…”

Wye River sottolinea inoltre ripetutamente la responsabilità palestinese nella stabilita “investigazione, persecuzione e punizione” di “sospetti terroristi”. Ma non menziona che da Oslo I fino al giorno della firma del Memorandum del Fiume Wye i morti sono palestinesi e che secondo Amnesty “rimane un’impunità quasi totale nelle morti illegali di palestinesi” da parte di Israele: “Le indagini sono inadeguate. I funzionari responsabili raramente appaiono davanti alla corte; se lo fanno, poche volte sono condannati, e se lo sono, le condanne sono insignificanti in relazione alla perdita di vite umane”.

La “Road Map: “Road Map per una soluzione permanente del conflitto israelo-palestinese basata sui due Stati”, documento elaborato dal Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Nazioni Unite) e pubblicato dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti il 30 Aprile 2003 e basato sui punti della Conferenza di Madrid.

I pianificatori della “Road Map” hanno incluso varie caratteristiche che quasi ne garantiscono il fallimento.

· Una è l’assenza di un calendario prefissato. Così ognuna delle due parti – nella pratica, quella israeliana – può fermare i progressi tra fase e fasi e all’interno di ognuna di esse.

· Un’altra caratteristica è che vengono aggiunte fasi transitorie ad un processo che già di per sé stesso si è prolungato. Questo significa, nella pratica, il rinvio degli aspetti più difficili della risoluzione del conflitto – la negoziazione di questioni come le colonie, la sovranità, Gerusalemme e i rifugiati.

Gli accordi che sono falliti dalla “Conferenza di pace di Madrid” e che ponevano enfasi sugli accordi transitori per fasi, vengono risuscitati nella “Road Map”. Il piano è una ricetta sicura per un disaccordo infinito, che sarà sfruttato da Israele per cercare di prendere tempo mantenendo in maniera indefinita l’occupazione militare e la maggioranza delle colonie in funzione, oltre a restringere il controllo palestinese alla minima porzione possibile dei territori occupati.

La “Road Map” perde un’occasione per porre fine al conflitto nel decidere di non concentrarsi sull’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, né sulle colonie israeliane che sostengono questa occupazione. Si concentra invece sulla violenza palestinese e come combatterla – come se questa violenza non avesse origine dalla violenza israeliana e come se nell’interromperla l’occupazione e le colonie diventassero una realtà accettabile.

Questa ossessione ha portato gli americani a concentrarsi sui cambiamenti cosmetici nella direzione palestinese, senza allentare lo strangolamento dell’occupazione e senza porre fine alla violenza israeliana.

Nell’interpretazione della “Road Map”, prima che Israele sia tenuta a fare qualcosa, si esige ai servizi di sicurezza palestinese di condurre una guerra implacabile contro le fazioni palestinesi che attaccano le forze di occupazione israeliane e i coloni all’interno dei territori occupati. Questo significa iniziare una guerra civile palestinese, prima che vi sia alcuna indicazione che il governo israeliano stia rispettando gli impegni presi.

Oltre alla brutalità quotidiana di un esercito di occupazione che controlla e nega i diritti di una popolazione civile alla quale vengono rubate le proprie terre a beneficio dei coloni, la forza è stata utilizzata indiscriminatamente in aree densamente popolate con il fine di schiacciare la resistenza palestinese; secondo le parole del Generale Moshe Ya’alon, l’ex capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano: “bisogna far comprendere ai palestinesi fin nel più profondo della loro coscienza che sono un popolo sconfitto”.

Chi ha meglio espresso questa realtà è Norman Finkelstein (ebreo), che nella sua conferenza “50 anni di violazione dei diritti umani”, dice:

1° Le colonie sioniste in Palestina rientrano all’interno del percorso generale della conquista.

2° Il cosiddetto processo di pace è in realtà la fase culminante della conquista.”

A metà del secolo scorso, lo sterminio aveva cessato di essere un’alternativa possibile, e per questo il movimento sionista aveva optato nel 1947 per l’espulsione; ma nel 1967 non solo lo sterminio ma anche l’espulsione cessarono di essere un’alternativa possibile. Adesso il movimento sionista imposta la sua opzione nella politica dell’“assedio”: il Piano Allon era l’inizio di questa nuova strategia.

La scomparsa dell’Unione Sovietica, l’allineamento dei regimi arabi con gli Stati Uniti e il declino dell’OLP avevano preparato le condizioni per l’applicazione di questo piano. Oslo segna il trionfo della strategia dell’“assedio” pianificata da Israele. Ehud Barak aveva detto “Yitzak Rabin pensò al Piano Allon fino al giorno della sua morte”. Credere che Oslo abbia influenzato il comportamento di Israele nell’abbandonare i territori è un grande equivoco. La “Road Map” e la “Conferenza di Pace di Annapolis” non si discostano da questo scopo e confermano che la sicurezza e il controllo in Cisgiordania rimangono definitivamente nelle mani di Israele.

L’obiettivo reale del “processo di pace” è il culmine della strategia del “assedio” di Israele. Per legalizzare l’emanazione di quest’ultimo passo vi vera bisogno di collaboratori indigeni: l’Autorità Palestinese sta giocando questo ruolo. Nel prossimo futuro la strategia israeliana probabilmente funzionerà; solo una massiccia rivolta popolare araba può farla fallire.

Il linguaggio è il veicolo del pensiero. Quando si falsifica il linguaggio si falsifica il pensiero”: il processo di pace israeliano deve essere letto correttamente come processo di conquista ed espansione.

Fonte:http://www.islamshia.org/item/746-palestina-i-processi-di-pace-legittimano-l-occupazione.html

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