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Le paure di un Occidente che teme d’essere tagliato fuori dal Medio Oriente

di Salvo Ardizzone

Nei giorni scorsi, il Ministro della Difesa francese Le Drian ha lanciato un monito durante una sua vista a Baghdad: Raqqa e Mosul dovranno cadere entro la fine dell’anno, decretando la fine del “califfato”. Ma quella che può sembrare una constatazione del rapido evolversi della situazione, in realtà esprime tutta la preoccupazione di chi si sente in procinto d’essere tagliato fuori dai giochi per il riassetto del Medio Oriente.

Quel monito è rivolto essenzialmente a Washington e agli altri Paesi della sedicente coalizione a guida Usa, perché si decidano a fingere almeno di fare qualcosa contro l’Isis prima che collassi, per aver titolo di sedersi ai vari tavoli negoziali che determineranno il prossimo assetto della Regione.

La prospettiva d’essere esclusi è ben chiara per chi ha puntato sulla destabilizzazione di Siria ed Iraq per spartirseli; e adesso la ritirata delle bande del “califfo”, descritte sin’ora come “invincibili”, smaschera il gioco di chi ha finto di combatterle. Di qui la ripresa di alcuni raid dell’Armée de l’Air su Mosul, di qui l’arrivo in Qatar dei B-52 (!) dell’Usaf in sostituzione dei B-1 Lancer, di qui le missioni, sporadiche quanto pubblicizzate, della Raf. Ma, malgrado queste finzioni, almeno in Siria tanto l’Occidente quanto le petromonarchie del Golfo sono ormai tagliati fuori.

Nella realtà, la tregua inaugurata a febbraio è ormai virtuale, e gli avvenimenti procedono in modo diametralmente opposto a quanto sperato dal fronte di chi la Siria l’ha aggredita. Sono ormai decine i gruppi che hanno deciso di deporre le armi, aderendo ai programmi di disarmo e reinserimento varati dal Governo siriano; al contempo, la lotta contro terroristi e “ribelli” che hanno continuato l’aggressione non s’è mai fermata.

Fra l’altro, a complicare (o semplificare) il quadro c’è la guerra intestina scoppiata fra le varie fazioni che, strette dall’Esercito siriano e dai suoi alleati, si scontrano ferocemente per il controllo delle sempre più scarse risorse a loro disposizione. A nord, a ridosso del confine turco, quel che resta del Free Siryan Army, il Jhabat al-Shamiya e i qaedisti di Al-Nusra sono incalzati dall’Isis, ed è più che probabile uno sconfinamento in massa di queste formazioni in Turchia per evitare un massacro. Al contempo, nel campo profughi palestinese di Yarmuk, alle porte di Damasco, l’Isis e al-Qaeda (ovvero Al-Nusra) si danno battaglia furiosamente, incuranti dei civili. Non si tratta di episodi isolati, né per la dimensione, né per la diffusione degli scontri che vengono segnalati un po’ dappertutto.

Damasco, dal canto suo, procede con la sua strategia: dopo la liberazione di Palmyra e Qurayteen, che segue quella dell’intero distretto di Latakia, di vaste aree a Homs e nel sud, intorno alla Capitale, adesso si prepara la battaglia decisiva per la liberazione di Aleppo.

Al momento, almeno 12mila uomini si stanno concentrando nell’area della seconda città siriana; si tratta delle unità migliori, la punta di lancia delle recenti vittorie di Damasco; dalle indiscrezioni che sono filtrate (volutamente?) dai media russi, entro una settimana dovrebbe scattare l’offensiva. Ormai sono giorni che artiglieria, lanciarazzi e le Aviazioni russa e siriana martellano le postazioni dei terroristi, e le prime operazioni stanno tagliando le ultime vie di rifornimento rimaste alle bande, dopo che le offensive dei mesi scorsi le avevano isolate quasi completamente.

I Russi, che nella realtà non si sono affatto ritirati, schierano fra i 30 e (più probabilmente) i 40 elicotteri d’attacco; si tratta di Mi-28N, Ka-52 e Mi-35M, cannoniere volanti di ultima generazione capaci di operare di notte e dotate di contromisure contro i Manpads (missili contraerei spalleggiabili); una minaccia divenuta concreta nei cieli siriani (4 aerei di Damasco abbattuti negli ultimi 31 giorni, l’ultimo giovedì) dopo che gli Usa e le petromonarchie hanno deciso di rifornirne ampiamente Daesh, qaedisti e “ribelli”, nel tentativo di contrastare il potere aereo che li sta distruggendo (per la cronaca, a scanso di eccessivi imbarazzi, hanno fornito sistemi Strela-2 e Igla-1 acquistati al mercato nero e Fn-6 di fabbricazione cinese).

Quegli elicotteri d’attacco, sono di gran lunga più adatti a fornire appoggio alle fanterie e meno vulnerabili di quanto non lo fossero gli aerei che sono stati ritirati (fra l’altro usurati dall’impiego intenso e indifesi da minacce aeree e terra-aria), e assieme agli altri velivoli russi e siriani stanno martellando senza posa le posizioni nemiche che sono in crisi. Gli stessi attacchi locali portati nell’area di Aleppo da Al-Nusra e formazioni alleate (tanto per chiarire che non ci sono “ribelli” moderati”), sono stati bloccati in attesa dell’offensiva finale.

In questo quadro è ovvio che i colloqui di pace a Ginevra (formalmente riapertisi mercoledì, ma non entrati nel vivo) segnino il passo, e lo stesso inviato dell’Onu, Staffan De Mistura, dichiari che il round di colloqui sarà d’importanza cruciale. Appunto.

Il 24 marzo scorso, i colloqui si arenarono sul ruolo del Presidente Al-Assad nel futuro della Siria: la cosiddetta “opposizione” siriana, dando voce a chi la Siria voleva smembrarla per spartirsela, sosteneva che doveva dimettersi prima della costituzione di un Governo di transizione; la stessa posizione di Riyadh e Ankara.

Washington ha cominciato a comprendere, suo malgrado, che Al-Assad è parte della soluzione, non del problema, ma per i suoi legami con il Golfo non può dirlo apertamente e tratta sottobanco con Mosca mentre continua a sostenere ufficialmente che il Presidente non può far parte del futuro della Siria.

La Francia, con l’Inghilterra appena più defilata, comprate entrambe da contratti miliardari, stanno sulle posizioni di Riyadh, e Israele, da dietro le quinte, soffia sul fuoco continuando a speare in una Siria smembrata.

Ma se queste posizioni avrebbero avuto un senso se Isis, qaedisti e sedicenti “ribelli” fossero stati vincenti, adesso risultano patetiche e fuori dal tempo: il Governo siriano ha detto che il destino del Paese lo decide il suo Popolo; non sarà a un tavolo che le potenze straniere sconfitte ribalteranno cinque anni di lotte durissime. In questo Russia ed Iran sono allineati; piaccio o no, ormai sono al centro della scena mediorientale, e non intendono permettere una “soluzione diplomatica” che regali ciò che i nemici di Siria ed Iraq non sono riusciti ad ottenere con le armi, riappropriandosi di potere e influenza ormai perduti.

Si sono appena tenute le elezioni in Siria, volute da Al-Assad per almeno due ragioni: da un canto dimostrare la partecipazione e il consenso popolare, dall’altro il controllo che il Governo ha realmente su vasta parte del Paese. Dalle prime stime, l’affluenza alle urne dovrebbe superare ampiamente quella delle elezioni del 2012, un anno durissimo, con gli aggressori convinti d’essere sul punto di vincere.

Sia come sia, la campana sta suonando per le ambizioni di quanti avevano scommesso sulla fine della Siria; è il campo che sta determinando l’esito della partita e, a breve, chiudendo il capitolo Aleppo, ogni appiglio verrà a mancare.

Resterà l’Iraq, dove la sconfitta del Daesh viene ritardata ad arte dai maneggi che soffiano sulle divisioni del Paese e impediscono la liquidazione d’un nemico che, senza di esse, sarebbe già stato sconfitto (basti pensare al come si faccia di tutto per intralciare l’impiego delle milizie sciite, al come si incoraggi in tutti i modi la dirigenza curda a spaccare il Paese e si inciti quella sunnita contro gli sciiti).

È stato appena fatto un rimpasto di Governo per limitare la pesantissima eredità del vecchio premier Al-Maliki, fatto di corruzione e settarismo; è un passo avanti, ma in ogni caso la situazione irachena è assai meno complessa di quella siriana: per forza di cose, minori sono le implicazioni di potenze esterne, minori le distruzioni nel Paese; piaccia o no a Usa, Golfo e Turchia, neanche qui potrà passare molto tempo prima che la crisi venga risolta.

Certo rimarranno le divisioni suscitate e rinfocolate ad arte, le distruzioni da ricostruire, le tante ferite da rimarginare; occorrerà tempo, ma è la Storia che s’è messa in cammino per dare al Medio Oriente un assetto opposto ai disegni di quanti volevano spartirselo.

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