Cronaca

Cronaca di una notte al Pronto Soccorso

Catania – Sono entrato in Pronto Soccorso alle ore 18:04 del 4 Luglio 2023, con un’emiparesi del volto sinistro. Il Pronto Soccorso in questione è quello dell’Ospedale Garibaldi “Centro” di Catania, nuova struttura inaugurata in pompa magna dal Governatore Renato Schifani con tutta la sua claque, con tanto di arcivescovo a impartire benedizioni all’urbi et orbi.

Che la struttura sia nuova è innegabile, anche perché fare peggio del precedente Pronto Soccorso era veramente difficile, eppure ci sono riusciti. Ho avuto modo, sulla mia pelle, di constatare come questa struttura sia sì nuova, ma che manchi completamente di organizzazione e, soprattutto di un reale rapporto con il paziente.

Sono entrato con le mie gambe all’interno di una sala con delle poltrone in ferro, gli schermi che sarebbero dovuti servire per le chiamate, spenti. All’interno di questo stanzone, che accoglie di tutto, c’erano alle 18:04 almeno cinquanta persone, chi su una sedia rotelle, chi con aghi cannula al braccio.

Faccio il “Triage” dove, va reso merito, un infermiere con garbo e gentilezza mi registra, prende i parametri vitali e mi assegna il “codice giallo”. Da questo momento, visto il sospetto di Stroke, ossia di un possibile ictus o ischemia, passano tre ore abbondanti dove rimango seduto nel salone con un braccialetto al polso. Attendo.

Pronto Soccorso nel caos

Nel frattempo, all’interno del salone arriva anche un ragazzo colpito alla coscia da due colpi di pistola, che, sanguinante, passa attraverso il salone per entrare nella stanza del Triage. Il sangue rimarrà lì, non verrà mai pulito. Così come il vomito di una ragazza, all’ingresso. Rimarrà lì.

Vengo chiamato alle ore 21:15. Mi vengono presi nuovamente i parametri, effettuato l’elettrocardiogramma, mi dicono di sistemarmi su una poltrona e da lì attendere la chiamata di un medico. Quando? Non si sa. Fortuna o meno, vengo chiamato dopo dieci minuti, entro in una sala visite dove una giovane dottoressa mi fa accomodare, si fa raccontare il tutto e decide di contattare il neurologo che arriva dopo pochi minuti.

Esplicati i primi controlli neurologici si decide per effettuare una Tac. Siamo già passate le 22, mi viene inserita una cannula, mi viene fatto un’emogasanalisi, il tutto con molta professionalità. Vengo portato al reparto radiologia dove vengo sottoposto alla Tac. Effettuato l’esame vengo nuovamente condotto nella sala dove c’è la giovane dottoressa che mi annuncia, in accordo con la neurologa, di aver deciso di tenermi in osservazione per 24 ore.

In attesa di sapere il risultato chiedo, allora, di avere un posto dove stare, la giovane dottoressa che era stata tanto gentile e disponibile a questa domanda mi guarda con aria stranita, infastidita e mi annuncia che sarei dovuto rimanere il sala d’attesa e se si fosse liberata qualche poltrona mi avrebbero dato il posto.

Attesa snervante

Esco, cannula al braccio mi aggiungo agli altri “compagni di viaggio” che svernano in sala d’attesa con quel dispositivo medico attaccato, incuriosito chiedo a quel signore che avevo visto non appena arrivato, da quanto tempo fosse lì: mi risponde dalle 13. Inizio a capire la sorte che mi aspetta.

Nel frattempo la sorte dei pazienti, che non hanno nessun contatto tranne quello con una porta chiusa e con un infermiere trincerato dietro una lastra di vetro che risponde quando può, viene decisa da una guardia giurata che decide chi sono i degni di attenzione e chi invece deve attendere. 

Il tempo passa inesorabilmente. A mezzanotte e mezza passata, decido di avvicinarmi al Triage per avere qualche informazione, ma devo fare i conti con una guardia giurata che mi dice che entrerà a parlare con l’infermiere e che mi farà chiamare.

L’infermiere del Triage non sa nulla della mia situazione, ovviamente c’è stato il cambio turno ma gentilmente mi fa accomodare, mi dice di aspettare nel corridoio dinnanzi l’ambulatorio 3, la stanza dove sono stato visitato. Entro, aspetto dietro l’ennesima porta chiusa, siamo già all’una del mattino mentre dalla stanza esce l’infermiera che mi aveva visto ad inizio visita, mi dice di attendere l’uscita della paziente e di entrare.

Entro, la dottoressa mi guarda con occhi severi e mi chiede cosa ci faccia lì. Faccio notare l’ora e che attendo di sapere l’esito della Tac. Infastidita digita qualcosa al computer, mi dice che la Tac ha escluso problemi. Chiedo nuovamente quando avrà modo di avere una poltrona, non chiedo nemmeno il letto, sarebbe eccessivo e visto l’andazzo superfluo. Mi risponde che la sistemazione è quella: sala d’attesa.

Benvenuti all’inferno

Chiedo allora di avere i referti, di voler mettere firma e andare via perché oltre a non avere nessuna comodità, in quel salone, non vi è alcuna assistenza. Mi dice di aspettare, di avere pazienza. Esco, torno in sala d’attesa, l’una è passata e stanno arrivando le due, la sala sempre piena e l’infermiere sempre trincerato. Stremato decido per andare via, cannula compresa. La toglierò a casa. Rientro senza sapere di cosa si è trattato, solo supposizioni sul freddo dei condizionatori, sino alla fine ho chiesto di avere qualche forma di assistenza.

L’indomani consultato un neurologo a pagamento, scopro che la mia emiparesi è dovuta alla “Paralisi di Bell” e che non ha niente a che vedere con i condizionatori.

In quelle ore al Pronto Soccorso, fatta eccezione per la struttura, ho visto che il nuovo è un concetto architettonico astratto. I pazienti non hanno nessun riferimento, gli unici contatti sono con delle guardie giurate che fungono da arbitri senza avere nessuna competenza medica specifica. Benvenuti all’inferno!

di Sebastiano Lo Monaco

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