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Le fragole amare di San Quintín

San Quintín – «Pentirmi? Non ho sfruttato il sudore, il dolore, la fatica e neanche il lavoro altrui. Non ho oppresso una sola anima, non ho nulla di cui pentirmi. Stando così le cose, non rinuncerò all’ideale, venga quel che venga». Così dichiarava l’anarchico Ricardo Flores Magón quando, nel 1921, gli venne concessa la possibilità di ottenere l’indulto attraverso un atto di pentimento in cui avrebbe dovuto sconfessare pubblicamente le sue idee politiche. Non lo fece, ma avrebbe pagato la sua mirabile intransigenza qualche mese più tardi, quando venne assassinato nella sua cella di Fort Leavenworth, in Kansas. Esattamente dieci anni prima, Magón era stato protagonista di un’insurrezione anarchica nella Baja California.

Un’esperienza che ebbe vita breve, cominciata con la presa della città di Mexicali e conclusasi a Tijuana con la sconfitta dei rivoluzionari da parte dell’esercito di Porfirio Díaz. Quella che per qualche mese fu la capitale dei “sovversivi”, un secolo più tardi sarebbe diventata una metropoli di frontiera molto cara agli Stati Uniti, oggi capitale di ciò che c’è di più distante da ogni parvenza di giustizia sociale.

È la Baja California, «una terra senza mediazioni possibili, che non concede emozioni a metà. O cattura con una stretta allo stomaco o respinge totalmente», scrive Pino Cacucci ne “La polvere del Messico”. Una sola strada di millecinquecento chilometri attraversa interamente la regione, quasi sempre viaggiando parallela alla costa. Su questa strada, duecento miglia più a sud di San Diego, sorge San Quintín, un piccolo villaggio rurale tra il Pacifico e i terreni riarsi della Ensenada.

Qui, lo scorso 17 marzo, 50mila braccianti da tutta la Baja California si sono riuniti scendendo in sciopero per la prima volta, interrompendo per più di due settimane la raccolta e lasciando marcire i prodotti nei campi e nelle serre. Salari da fame, abitazioni fatiscenti, mancanza di acqua potabile, servizi igenico-sanitari del tutto inadeguati: la lotta dei jornaleros di San Quintín è per condizioni di vita e di lavoro dignitose, ma è anche una denuncia contro gli abusi sessuali che abitualmente vengono commessi dai capireparto, “los mayordomos de cuadrilla”.

La risposta del governo di Kiko Vega è arrivata all’istante, col colore nero delle tenute antisommossa dei 1.200 agenti schierati contro i lavoratori in sciopero. Tra diverse cariche della polizia e maltrattamenti, il bilancio finale è stato di 200 arrestati, ma la solidarietà ai lavoratori della Baja è arrivata anche da oltre frontiera e la lotta dei jornaleros è tutt’altro che terminata.

“OAXACALIFORNIA”: UNA STORIA DI ORDINARIA GLOBALIZZAZIONE

Se c’è una porzione di pianeta che più di ogni altra rappresenta la diseguaglianza sistemica di cui si nutre l’economia nel mondo globalizzato, quella ha la forma del Messico. Se a San Quintín un campesino guadagna circa 8 euro al giorno al netto di dieci o dodici ore lavorative, trecento chilometri più a nord la stessa cifra rappresenta il minimo sindacale pagato all’ora dall’altra parte del confine.

Su questa disuguaglianza si fonda l’agribusiness californiano, una macchina di sfruttamento che nel tempo ha delocalizzato il proprio motore. Storicamente il comparto agricolo della California si edificava sulla base di una mano d’opera sottopagata e “indocumentata” proveniente da oltre confine, ma col tempo anche l’industria agricola ha in parte trasferito a sud della frontiera molte operazioni, secondo un modello che per­mette ai grandi inte­ressi eco­no­mici di nego­ziare con­di­zioni più van­tag­giose muo­vendo flui­da­mente capi­tali attra­verso mer­cati e con­fini con l’aiuto di incentivi.

Come nel caso delle maquiladoras, il governo messicano, prono agli interessi del capitale straniero, ha letteralmente “spianato il terreno” agli imprenditori nordamericani con la prospettiva di una manodopera a prezzi stracciati. Cospicui inve­sti­menti nelle infra­strut­ture e negli impianti di irrigazione hanno trasformato villaggi come San Quintín in zone di pro­du­zione agri­cola inten­siva destinate all’esportazione. Fragole, more, cipolle, asparagi e pomodori sono solo alcune tra le colture più richieste dal mercato statunitense.

La forza lavoro è com­po­sta prevalentemente da popo­la­zioni indi­gene provenienti dallo stato di Oaxaca, persone che si sono tro­vate a vivere e a lavo­rare in una zona semidesertica senza ade­guate abi­ta­zioni e strut­ture sani­ta­rie. Molti braccianti dormono direttamente nei campi in cui lavorano, continuamente esposti alle esalazioni prodotte dalle sostanze chimiche e dai veleni utilizzati nelle colture. Molto alta è anche la presenza di una forza lavoro minorile, mentre la piaga degli abusi sessuali sulle lavoratrici non è altro che l’estrema conseguenza di un caporalato vergognoso ma libero di agire indisturbato.

Esasperati dalle loro condizioni di lavoro, migliaia di braccianti hanno bloccato la principale arteria stradale della regione per chiedere al Governo di ascoltare le loro richieste, ma il copione si è rivelato essere quello di sempre e la risposta si è manifestata in un atto di repressione. «Nuestra lucha es por hacernos escuchar y el mal gobierno grita soberbia y tapa con cañones sus oídos» era una delle frasi pronunciate dal Subcomandante Marcos nella famosa dichiarazione della “Selva Lacandona”, più che mai attuale ed esplicativa di un “malgoverno” che riesce sempre a riciclarsi usando le stesse modalità.

Difatti, la proposta del governo arrivata dopo i disordini è stata quella di aprire un negoziato con i lavoratori, ma l’offerta di aumento del salario, a dir poco “offensiva”, ammontava a qualche centesimo in più da aggiungere al magro stipendio giornaliero. In questo quadro, le sigle dei sin­da­cati nazio­nali, note per la loro inerzia e per la pro­cli­vità alla cor­ru­zione, non hanno alcun interesse nel prendere le parti di qualche jornalero indigeno, e i bracciati possono contare solo sulla loro organizzazione con­tro le cor­po­ra­tion e gli inte­ressi eco­no­mici in con­ni­venza con le oli­gar­chie poli­ti­che locali. Intanto, i lavoratori e le lavoratrici della Baja California hanno avuto il merito di dare vita a una vertenza che ha saputo rivelare anche fuori confine l’esistenza delle loro condizioni di vita, mostrando il frutto amaro del loro lavoro al mondo intero.

di Lorenzo Ghetti

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