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Turchia, un Paese impantanato dalle follie del suo nuovo “sultano”

di Salvo Ardizzone

All’inizio della sua vicenda politica Erdogan s’è trovato a gestire la migliore posizione internazionale della Turchia nella sua storia moderna: ritmi di crescita sostenuti, l’Europa che finalmente prendeva sul serio l’eventualità di una sua adesione, una politica estera sempre più attiva in Medio Oriente e nell’Asia Centrale. Il ministro degli Esteri Davutoglu, gran tessitore di rapporti e alleanze con lo slogan “zero problemi con i vicini”, aveva tracciato una posizione neo-ottomana secondo la quale Ankara era concepita dal consesso internazionale come un credibile attore primario in tutta l’area.

Dopo dieci anni, di tutte quelle straordinarie opportunità non sono rimaste che macerie: la crescita ha rallentato vistosamente, dipendendo pericolosamente da un continuo afflusso di capitali esteri sempre più nervosi per l’irrazionale guida politica del Paese; l’Europa, che guarda la Turchia con sospetto per il sempre più marcato cesarismo di Erdogan, le sue impresentabili alleanze con movimenti terroristici e le imprevedibili iniziative, ha archiviato ogni idea di adesione; i rapporti con i vicini sono ormai disastrosi e la credibilità internazionale scaduta a livelli minimi.

Certo, la gestione di Erdogan, sempre più autoritaria e soggetta agli interessi suoi e della sua cerchia, sfociata in scandali a ripetizione soffocati brutalmente con leggi liberticide contro qualsiasi opposizione, provenisse dalla stampa, dal potere giudiziario, dall’esercito o da semplici proteste di piazza, hanno fatto tanto per demolire quanto di buono il Sistema Paese aveva saputo mettere in piedi, ma è stata la sciagurata avventura siriana ad essere la tomba d’ogni residua ambizione turca.

Erdogan è stato da subito un acceso sostenitore dei “ribelli” siriani, schierandosi a spada tratta contro l’antico alleato Assad, contando in un suo rapido tracollo e in un’espansione della sua influenza sulla Siria. Per questo non ha esitato a foraggiare in tutti i modi le bande di tagliagole che mettevano a ferro e fuoco il suo vicino, a ospitarli e addestrarli sul suo territorio, a inviare armi e denaro, a permettere il passaggio indisturbato di “volontari” che ne infoltivano i ranghi, a fare da “mediatore” acquistando petrolio rubato dai pozzi siriani e poi iracheni, attrezzature smontate da fabbriche, addirittura auto rubate; fungendo insomma da retrovia e da agente a quella marmaglia. A tal proposito, è importante sottolineare come non si sia limitato a dare appoggio a formazioni vicine alla Fratellanza Musulmana, ma nell’intento di destabilizzare la Siria abbia spinto il suo sostegno pieno anche alle bande dell’Isil che, malgrado dichiarazioni reticenti quanto sbugiardate dai fatti, ha sostenuto largamente fino ad ora.  

In questa torbida vicenda s’innesta la questione curda, antico quanto dolente dossier aperto per la Turchia. I curdi sono un popolo senza nazione diviso fra quattro Paesi: Turchia, Siria, Iraq e Iran; in Turchia rappresentano una forte minoranza di circa 15 milioni contro cui il potere centrale ha condotto un lunghissimo conflitto a bassa intensità che negli ultimi 30 anni ha mietuto almeno 45mila vittime. Erdogan ha tentato un avvicinamento tramite Hakan Fidan, capo dei servizi segreti, che ha incontrato più volte Abdullah Ocalan, leader del Pkk all’ergastolo sull’isola di Imrali. 

Il motivo sta nelle ambizioni del leader turco: nella vigente costituzione, il Presidente ha poteri di rappresentanza mentre Erdogan vuole un potere vero accentrato nelle sue mani, non in quelle d’un Premier da manovrare come adesso fa con Davutoglu. Per cambiare la costituzione gli occorre una maggioranza parlamentare dei due terzi che non ha e che non spera d’avere con l’Akp, il suo partito, gli servono altri voti; l’Hdp, il principale partito curdo, alle scorse elezioni presidenziali ha avuto il 9,8%, quanto gli basterebbe ad assicuragli il successo in cambio di un riconoscimento nella costituzione dei diritti del popolo curdo. 

Per la verità, già da tempo Erdogan intratteneva ottimi rapporti con il Kurdistan iracheno di Masud Barzani; un’alleanza basata su una chiara coincidenza d’interessi: i curdi facevano passare dalla Turchia il petrolio dei notevoli giacimenti sotto il loro controllo, e Ankara era ed è più che mai assetata di energia a prezzi stracciati. È ovvio che gli avvenimenti successivi, con l’avvento dell’Isil e gli enormi giacimenti della zona di Kirkuk finiti nelle mani dei peshmerga perché li “difendano” dal “califfato” cambiano completamente le prospettive. È l’anticamera per la creazione di un’entità statale curda realmente autonoma, detentrice di enormi riserve energetiche da mettere al servizio di chi ha propiziato l’evento. Ma è anche la creazione d’un polo d’attrazione per tutto il popolo curdo, che per la prima volta vedrebbe nascere una realtà sua a cui, in qualche modo, guarderebbero tutti.

La Turchia, grazie ai rapporti ormai consolidati, sarebbe stata in prima fila anche su questo scenario, certo rompendo con antiche tradizioni e un diffuso sentire della popolazione, ma con grandi ricadute positive per il suo Sistema Paese. Sarebbe, ma, come abbiamo detto prima, la vicenda siriana e la folle gestione di Erdogan hanno partorito un capolavoro in negativo.

Chiamata a scegliere fra i tagliagole del “califfato” ormai alle porte e Assad, s’è intestardita, o meglio, Erdogan s’è intestardito a rovesciare l’antico alleato, dichiarando che non fa alcuna differenza fra l’Isil e il Pkk, che interverrà con le sue forze di terra solo se gli verrà permesso d’instaurare una no-fly zone che impedisca all’aviazione di Damasco di agire, di creare una zona cuscinetto sotto il suo controllo, di ottenere un’assicurazione dall’Occidente che il regime di Assad verrà comunque rovesciato e che verranno armate e sostenute le organizzazioni di “ribelli” moderate (leggi da lui controllate). Di più, dinanzi alle crescenti proteste della popolazione curda, che vede i propri fratelli massacrati a ridosso dal confine, ha scatenato una bestiale repressione che ha mietuto vittime a diecine. 

Con questo ha sostanzialmente cancellato gli sforzi faticosi per ottenere l’appoggio dell’Hdp alle sue pretese di presidenzialismo; ha messo un’ipoteca severa sulle future relazioni con l’entità curda di Barzani, che in futuro potrebbe pensare di trovare altre vie per il suo greggio; ha messo in crisi le relazioni con gli Usa, che vorrebbero una collaborazione nella gestione di un dossier che gli è sfuggito di mano. Al contempo, anche con i Paesi arabi è in crisi: con l’Arabia Saudita e gli altri del Consiglio del Golfo è da tempo in rotta per l’appoggio dato alla Fratellanza in Egitto e Libia, con l’unica eccezione del Qatar (che non è poi tanto). Infine, con la Russia, con cui avrebbe avuto molti motivi per collaborare nel bacino del Caspio e nell’Asia Centrale, i suoi rapporti sono ai minimi termini per la sua assurda testardaggine nella crisi siriana, e lo stesso con l’Iran, con cui avrebbe avuto tanto da sviluppare in quell’area del Caspio da cui ora viene esclusa.

Erdogan ha messo la Turchia in un vicolo cieco, isolata e in rotta con tutti gli attori dell’area; di più, l’ha privata di una linea politica, di qualunque strategia e di tutta la credibilità che nel tempo era riuscita a costruirsi. Si. Un vero capolavoro in negativo di cui alle elezioni del 2015 potrebbe essere chiamato finalmente a rispondere.   

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