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Vince Netanyahu, Israele vota per l’apartheid

Dopo il testa a testa tra il Likud di Netanyahu e il Blue&White di Benny Gantz, dichiaratisi vincitori con il 99 per cento dei voti scrutinati, a scrutinio ancora in corso, Netanyahu ha rivendicato la vittoria presentandosi ai membri del suo partito e dei suoi sostenitori a Tel Aviv, accompagnato dalla moglie Sara, per la quinta volta premier.

NetanyahuIl primo ministro Benjamin Netanyahu si è assicurato un quinto mandato mercoledì mattina, dopo che oltre il 95 per cento dei voti ha dato al blocco di destra un vantaggio di 10 posti sulla sinistra. Netanyahu ha ringraziato il Cielo per essere “arrivati fino a tanto”, 13 anni al potere tra il primo mandato nel 1996-1999 e i successivi governi, guidati ininterrottamente dal 2009 ad oggi, ha ringraziato anche “il popolo di Israele” che “mi ha confermato la fiducia per la quinta volta”.

Le divergenze politiche tra i candidati israeliani si sono rivelate in gran parte un evento secondario in una competizione elettorale che è diventata un referendum sulla leadership di Benjamin Netanyahu, essendo mancato completamente un dibattito sulle politiche israeliane.

Come Netanyahu, lo sfidante del partito Blue&White, Benny Gantz, è in realtà un candidato di centro-destra, “duro per le questioni militari”, con legami statunitensi. Netanyahu e Gantz potrebbero non differire in modo apprezzabile sulla politica estera o sul loro atteggiamento nei confronti della difesa israeliana.

Piuttosto che oppositore è molto più probabile che Benny Gantz possa diventare un membro del governo di Netanyahu, probabilmente ministro della Difesa, visto che Likud e Blue&White sono proiettati a vincere 35 seggi parlamentari ciascuno con il 95per cento dei voti scrutinati, lasciando i candidati in una situazione di stallo virtuale.

Alla Knesset il presunto partito moderato del Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu vorrà forse mantenere la situazione attuale, cioè l’apartheid non dichiarata di fronte al partito di Benny Gantz che in campagna elettorale ha parlato di piani ambiziosi per una conferenza regionale, per fare storia e “approfondire il processo di separazione dei palestinesi e mantenere senza concessioni… la libertà di azione dell’esercito israeliano ovunque”.

Il passo più audace che è andato proponendo è un referendum sui campi profughi intorno a Gerusalemme, nel quale, ovviamente, solo Israele voterebbe. Con i “Percorsi per la separazione” ovvero “percorsi all’inganno”, la costruzione degli insediamenti continuerà a pieno vigore, a dimostrazione che con tali rappresentanti nella prossima Knesset sarà possibile dichiarare ufficialmente Israele come Stato di apartheid.

Con tale sostegno per l’apartheid e considerando il tempo necessario per l’occupazione, nessuna propaganda può smentire la semplice verità: quasi tutti gli israeliani vogliono che l’apartheid continui. Al culmine dell’impudenza, la chiamano democrazia, anche se più di quattro milioni di persone che vivono accanto a loro e sotto il loro controllo non hanno il diritto di votare alle elezioni.

Questo è l’apartheid in tutto il suo splendore, la cui esistenza quasi tutti i cittadini ebrei del Paese vogliono continuare, magari con il sostegno straniero.

Trump in soccorso di Netanyahu

Che Benjamin Netanyahu prima delle elezioni legislative del 9 aprile si trovasse in gravi difficoltà per i problemi giudiziari in cui era coinvolta la moglie che si erano poi riflessi direttamente su di lui è un fatto noto a tutti, tanto che molti non credevano alla sua quinta riconferma a Primo ministro di Israele.

Anche negli Stati Uniti, al tempo delle elezioni Usa del midterm, dove i democratici Netanyahu0conquistavano la Camera mentre i repubblicani conservavano la maggioranza al Senato, si parlava di vittoria di Trump e sconfitta di Netanyahu. “Benjamin Netanyahu ha appena perso le Midterm Usa”, scriveva Samuel Freedman su Haaretz, un “sionista liberale”, che rimproverava a Netanyahu di aver schiacciato Israele su una sola parte politica americana, il partito repubblicano, prendendo le distanze dagli ebrei americani non repubblicani per un preciso calcolo.

Un calcolo secondo il quale “Israele può snobbare quattro o cinque milioni di ebrei americani liberali e moderati in favore di decine di milioni di cristiani evangelici bianchi di destra” (il cosiddetto “sionismo cristiano”). Sembrava indubbio che ormai un abisso separava il premier israeliano da gran parte della comunità ebraica americana rendendolo più debole. Era un calcolo sbagliato?

“Il miglior commerciante di cavalli di chiunque altro” è diventato capo del governo più longevo battendo l’illustre predecessore Ben Gurion grazie all’aiuto di Trump che è intervenuto ripetutamente in suo soccorso con iniziative utili per una ripresa elettorale di Netanyahu, ma piuttosto rischiose sul piano internazionale.

Per non parlare dell’uscita degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano, la decisione, nello scorso maggio, di spostare l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, è stata accolta molto bene dal popolo israeliano, che ha visto realizzato il sogno di Gerusalemme capitale di Israele.
In parallelo a questa iniziativa, Trump e il genero Kushner hanno cominciato a parlare di un piano per una soluzione definitiva della questione palestinese, ambiziosamente definito “l’accordo del secolo”, di cui non si sa nulla e la cui pubblicazione è stata opportunamente annunciata da Trump per dopo le elezioni in Israele.

Un più diretto e pesante appoggio è arrivato da Trump con l’attribuzione a Israele della sovranità sul Golan, di per sé una sorta di “bufala”, poiché gli Stati Uniti non hanno alcuna autorità in proposito, come si è affrettata a dichiarare l’Onu.
Il rinnovato mandato di Netanyahu gli permetterà di continuare la sua “politica di apartheid, colonizzazione e razzismo” con effetti devastanti per i palestinesi, mentre Israele complotta per annettere la terra palestinese in violazione del diritto internazionale.

di Cristina Amoroso 

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