Vietnam: monta la rivolta anticinese
Ormai in Vietnam è un autentico pogrom contro i cinesi; le proteste innescate dalla decisione di Pechino di ancorare una grande piattaforma petrolifera fra le isole Paracel, strappate al Vietnam del Sud nel 1974 e ancora rivendicate da Hanoi, sono cominciate all’inizio di maggio e si sono dilatate fino a coinvolgere decine di migliaia di persone. Non si tratta più di singole aggressioni contro la fabbrica o il negozio cinese: a Binh Duong, un grande parco industriale vicino Ho Chi Minh City, la folla ha devastato e bruciato tutti gli uffici e i capannoni che mostrassero insegne cinesi, senza far distinzioni; lo stesso è accaduto ad Ha Tinh, a sud di Hanoi, e lì ci sono state diverse vittime e moltissimi feriti nel corso di selvagge cacce all’uomo, che non hanno fatto distinzione fra cinesi del continente e taiwanesi.
Tutto questo è accaduto con il tacito assenso delle autorità, di solito assai dure nello stroncare disordini (il primo ministro ha dichiarato che chi ha violato la legge sarà punito, ma ha anche aggiunto che la piattaforma è illegale e le proteste legittime); ciò che fa pensare è che il centro industriale di Binh Duong è stato costruito con capitali di Singapore (6 mld di $) e produce per circa 8 mld di $ l’anno; l’impianto di Ha Tinh è della Formosa Plastics Group di Taiwan, che ha investito 10 mld di $ nel Paese: se il Governo vietnamita permette che quegli impianti vitali siano messi a rischio, è perché vuole mandare a Pechino un messaggio chiaro: non intende cedere.
Fra i due Paesi la ruggine è antica: il Vietnam è un Paese geloso della propria indipendenza, come ha dimostrato combattendo durissime guerre per conquistarla; la Cina invece, dopo la sconfitta americana, voleva espandere la propria influenza sul Tonchino e l’Indocina e provò ad affermarla aggredendo Hanoi nel ’79, ma ne ricevette una brutta lezione che lasciò le cose come stavano. E gli anni non le hanno migliorate.
Con gli anni Pechino ha iniziato una partita geopolitica assai azzardata in tutto il Mar Cinese, fatta di continue provocazioni per mettere i Paesi confinanti dinanzi a fatti compiuti; adesso, nelle Paracel, ha piazzato una piattaforma super tecnologica (vale oltre 1 mld di $) con costi di gestione altissimi in un posto dove idrocarburi non ce ne sono, al puro scopo di affermare un diritto. E lo ha fatto senza preoccuparsi delle conseguenze, respingendo le motovedette vietnamite con cannoni ad acqua e speronamenti che hanno provocato danni e feriti sulle unità di Hanoi.
Per comprendere lo spirito di Pechino, basta guardare la carta geografica appesa nelle scuole cinesi; comprende tutte province e tutte le regioni su cui il Celeste Impero vantava una qualche autorità ai tempi del massimo splendore, ed altro ancora. Adesso che il Dragone si sente potente, moltiplica le provocazioni in tutta l’area nei confronti del Vietnam, delle Filippine, della Malaysia, della Corea e soprattutto del Giappone, per rivendicare il possesso di isole che celano giacimenti offshore e risorse ittiche, oltre a controllare i mari su cui si muovono gli immensi traffici da e per la Cina.
Ovviamente questo alza la tensione e provoca reazioni pericolose di cui abbiamo già parlato diverse volte, prime fra tutte una massiccia corsa agli armamenti in tutta l’area, e poi l’avvicinamento e l’intrecciarsi di alleanze inedite fra Stati tradizionalmente quanto meno ostili. A tutto ciò s’aggiunge ancora che le provocazioni cinesi suscitano un’immediata reazione nazionalista, come in Giappone, dove il premier Shinzo Abe sta per proporre la modifica della costituzione pacifista, permettendo così il soccorso ad alleati ed aprendo di fatto la strada a sviluppi fino a ieri impensabili.
Il paradosso è che, in nome d’una politica di potenza, pensata ufficialmente per garantire alla Cina sicurezza e prosperità, Pechino mette seriamente a repentaglio rapporti economici e commerciali di enorme portata con tutti gli Stati dell’area. Da come agisce, è in nome di pure ambizioni imperialiste che rivendica nel modo più arrogante lo status di Nazione egemone dello scacchiere, con tutto ciò che ne consegue.
Ma è solo questa la ragione che ha fatto abbandonare al Dragone la politica di prudenza e basso profilo predicata da Deng Xiaoping nel ‘78, e che tanta strada le ha permesso di fare? Il fatto è che la Cina da almeno tre decenni segue una politica contraddittoria: ha liberalizzato l’economia, ma non intende rinunciare al potere del partito unico ed al ferreo controllo sulla società. Così ha conosciuto un incredibile sviluppo, ma a prezzo di squilibri sociali enormi e di una corruzione quasi generalizzata contro cui solo ora si combatte. Da anni ormai deve far fronte a rivolte contadine e sindacali sempre più numerose e massicce, ma non può più opporvi il vecchio mito della società comunista in cui tutti saranno un giorno uguali e felici; gliene occorre un altro, immediato e a buon mercato, da offrire alle sue folle immense: quello nazionalista del suo grande passato imperiale.
È un gioco antico quanto pericoloso (aggiungeremmo irresponsabile), che troppe volte la storia ha castigato, resta da vedere se saprà calcolarne i rischi, moltiplicati dai troppi attori coinvolti (Stati Uniti in testa, oltre a un Giappone per reazione sempre più revanscista). Le conseguenze sarebbero enormi per tutto il Globo.