Un’Italia “sciapa” e infelice in cerca di connettività
Dopo gli anni della “sopravvivenza” oggi l’Italia è una società più “sciapa”, senza sale, senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa.
Lo rileva il Censis nel 47esimo Rapporto annuale evidenziando che siamo “malcontenti”, quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali. Si è rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti.
L’analisi dei dati è impressionante. Il calo dei consumi è sintomo di un Paese sotto sforzo, un Paese “smarrito”, “profondamente fiaccato da una crisi persistente” con “dilagante incertezza sul futuro del lavoro”. “Sono quasi sei milioni gli occupati che si trovano a fare i conti con situazioni di precarietà lavorativa”, oltre i 4,3 milioni che non trovano un’occupazione.
Il crollo temuto non c’è stato, e gli italiani sono sopravvissuti tra rinunce e risparmi: se il 76% dà la caccia alle promozioni nei supermercati e aumenta il numero di persone che va al mercato, il 53% ha ridotto spostamenti con auto e scooter, il 68% ha tagliato cinema e altri svaghi, il 45% ha ridotto o rinunciato negli ultimi dodici mesi al ristorante.
Una famiglia su quattro fa fatica a pagare tasse o bollette e il 70% è in difficoltà se deve affrontare una spesa imprevista. Il Censis parla di “fragilità” per “una larga parte del Paese”. L’incertezza “ha preso il sopravvento” sulle famiglie assumendo “la forma della preoccupazione e dell’inquietudine”. Nel Rapporto annuale il Censis sottolinea che il 50% delle famiglie teme di non riuscire a mantenere il proprio tenore di vita e il 52% delle famiglie sente di avere difficoltà a preservare i propri risparmi. “Una larga parte del Paese scopre un’intima fragilità: più del 70% delle famiglie – si legge nel Rapporto – si sentirebbe in difficoltà se dovesse affrontare spese impreviste di una certa portata, come quelle mediche, il 24% ha qualche difficoltà a pagare tasse e tributi” e il 23% le bollette.
Oggi la società ha bisogno e voglia di tornare a respirare per reagire a due fattori che hanno caratterizzato il 2013. Il primo fattore – rileva il Censis – è lo stato di sospensione da “reinfetazione” dei soggetti politici, delle associazioni di rappresentanza, delle forze sociali nelle responsabilità del Presidente della Repubblica, che sono diventate il grande serbatoio per ritrovare la fiducia e l’autostima di sé, come il bambino nel grembo materno. Ma la reinfetazione, in nome del valore della stabilità, riduce la liberazione delle energie vitali e implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti che, a diverso titolo e con differenti funzioni, dovrebbero concorrere allo sviluppo, che è sempre un processo di molti.
Il secondo fattore è la scelta implicita e ambigua di “drammatizzare la crisi per gestire la crisi” da parte della classe dirigente, che tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre. Nel progressivo vuoto di classe politica e di leadership collettiva, i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una condizione di incertezza senza prospettive di élite.
Dov’è oggi il “sale alchemico”? Risponde il Censis. Quel fervore che ha fatto da “sale alchemico” ai tanti mondi vitali che hanno operato come motori dello sviluppo degli ultimi decenni si intravede, tuttavia, nella lenta emersione di processi e soggetti di sviluppo che consentirebbero di andare oltre la sopravvivenza. Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di un’Italia attiva nella grande platea della globalizzazione.
Se nuove energie e responsabilità si trovano in due ambiti: revisione del welfare e economia digitale, il filo rosso che può fare da nuovo motore dello sviluppo è la connettività fra i soggetti coinvolti in questi processi. È vero che restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni. Eppure la crisi antropologica prodotta da queste propensioni sembra aver raggiunto il suo apice ed è destinata a un progressivo superamento.
Oggi le istituzioni non possono fare connettività, – sostiene il Censis – perché sono autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo.
E la connettività non può lievitare nemmeno nella dimensione politica, che è più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide (dalla selva dei decreti legge all’uso continuato dei voti di fiducia).
Se istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi. Sarebbe cosa buona e giusta fargli “tirar fuori il fiato”.