Un mondo in armi: equilibri e strategie nella folle corsa agli armamenti
Nel mondo d’oggi le spese per armamenti non obbediscono all’esigenza di assicurare sicurezza alle Nazioni, servono piuttosto a sostenere le strategie aggressive degli imperialismi, a suscitare guerre per procura, a mantenere in sella gruppi di potere che spadroneggiano su molti Stati usandone le ricchezze come cosa propria, attraverso commesse miliardarie servono anche a comprare i servizi delle Nazioni che le producono, piegandone le politiche secondo la convenienza.
Per questo la spesa militare è da sempre il termometro più immediato e sicuro per indicare le aree di crisi e di tensione, e quelle dove esistono squilibri tali da mettere in discussione gli assetti di potere interni dei Paesi. Inoltre, la provenienza dei materiali militari e dei capitali necessari agli acquisti definisce, più d’ogni altra cosa, il tipo di relazione fra le Nazioni, il loro collocamento geopolitico, le loro aree di influenza o il grado più o meno ampio di sudditanza nei confronti di altre.
L’International Institute for Strategic Studies (Iiss) britannico ha appena pubblicato il Military Balance 2015, uno studio con cadenza annuale dedicato alle capacità militari ed alla spesa relativa dei singoli Paesi. Il volume e l’incremento delle spese in esso registrati, come pure la nazionalità dei materiali e dei capitali per acquistarli, disegna perfettamente la situazione internazionale, spesso anticipandone gli sviluppi.
Coerentemente al dilagare delle aree di crisi e di tensioni, dal rapporto emerge che nel 2014 la spesa globale per armamenti è tornata a crescere dopo essere stata in contrazione dal 2010, a dispetto di una congiuntura economica ancora pesantemente negativa per molti Paesi; questo aumento non è tuttavia omogeneo, ma corrisponde alle aree di tensioni ed ha motivazioni ben precise, che nella realtà poco hanno a che fare con il legittimo scopo di garantire la sicurezza delle Nazioni.
Il continente che più degli altri ha inciso sulla spesa globale è l’Asia, e la stragrande maggioranza di essa si concentra in Cina e nei Paesi confinanti o rivieraschi del Mar Cinese, uno scenario lontano per noi Europei, illusi ancora d’essere il centro d’un mondo che da tempo ha spostato laggiù il suo baricentro, ma cruciale.
Il motivo è semplice quanto noto: Pechino ha abbandonato il profilo basso degli anni passati, per una politica assai più assertiva a sostegno del suo nascente imperialismo. Per questo alimenta il suo strumento militare con spese crescenti (nel 2014 un più 12% sul 2013), finalizzate a proiettare la sua egemonia su tutto il Mar Cinese, innescando contenziosi con tutti i Paesi rivieraschi che, per reazione, incrementano le proprie in una corsa agli armamenti che vede il Giappone come primo attore contrapposto (nel 2014 ben 42 Mld di spese militari, aumentate per il 3° anno consecutivo). È in questo clima che il suo premier, Shinzo Abe, intende modificare l’articolo 9 della costituzione pacifista, con l’intenzione di dare peso politico e diplomatico a un colosso economico fin’ora rimasto confinato nelle sue isole.
Di qui un moltiplicarsi di punti di frizione in cui Pechino tasta la capacità di reazione dei suoi rivali e degli Usa (che tentano di contenerla senza aver deciso come): dalla contesa per le Senkaku e per tutti gli scogli dispersi nell’oceano (che celano enormi risorse nei fondali), al controllo delle rotte vitali per quei Paesi. È tutto quel quadrante che è in crescente tensione, fino all’Australia, anch’essa contagiata dalla febbre di un riarmo che, di gradino in gradino, potrebbe sfuggire di mano sfociando in una crisi repentina quanto disastrosa.
Altro quadrante che vede un aumento vorticoso delle spese in armamenti è quello mediorientale, con quattro dei cinque bilanci militari cresciuti percentualmente di più nel 2014 e un baricentro nettamente posizionato nel Golfo (Arabia Saudita +300% negli ultimi 10 anni, con 81 Mld di spesa nel 2014 ha il 4° posto nel mondo; Oman ha addirittura un +115% sul 2013).
Il motivo risiede nella guerra che l’Arabia ha mosso all’Iran e al mondo sciita nel suo complesso: per Riyadh la visione politica e religiosa di Teheran è inaccettabile perché mina alla base il suo sistema di potere, minacciandone l’assolutismo più completo e gl’immensi privilegi che permettono ad una esigua minoranza, costituita essenzialmente dalla sterminata famiglia reale, di godere senza alcun limite e controllo degli enormi introiti petroliferi.
Per questo, seguita dalla altre petro-monarchie del Golfo, ha scatenato una serie di guerre per procura che stanno insanguinando il Medio Oriente. Gli sterminati acquisti di materiale militare, tuttavia, se da un canto servono ad armare i propri alleati, vedi Egitto e le varie milizie e bande mercenarie che combattono le sue guerre, dall’altro, ed è il più, non sono finalizzate tanto ad armare gli eserciti degli Stati del Golfo (che non avrebbero come e a chi fare utilizzare quella marea di mezzi sofisticati quanto costosi) quanto a ripagare l’appoggio e la protezione delle Nazioni disposte a vendersi insieme alle armi, vedi il tradizionale alleato Usa, la Francia ultimamente così sollecita a sostenere le ragioni saudite grazie a contratti miliardari, l’Inghilterra beneficata anch’essa a suon di petrodollari.
Altra area di crescenti spese militari è l’Europa dell’Est, con la Russia protagonista indiscussa; già da tempo Mosca ha inteso riacquistare peso internazionale puntando su due assets tradizionali: le risorse energetiche e lo strumento militare. Con un più 33% nel triennio passato e un +10% nel 2014, Putin ha inteso ridare credibilità a Forze Armate da anni cadute in abbandono.
La crisi suscitata da Washington in Ucraina per bloccare la rinascita russa, spezzando i sempre più stretti rapporti con i Paesi europei e, soprattutto, con la Germania, ha accelerato questo processo già avviato, coinvolgendo diverse Nazioni dell’Est Europa, spingendole a una nuova contrapposizione innaturale e ridando vigore a una Nato che aveva perso ogni significato. Il rombo dei cannoni nella Novorossija è stato così un ottimo affare per fabbriche di armi e per le Nazioni che le vendono.
Gli Usa, dal canto loro, ufficialmente avrebbero ridotto la loro incidenza sul totale delle spese militari globali dal 47% del 2010 al 38% del 2014, ma a leggere bene fra le cifre è un dato sostanzialmente bugiardo perché, se è vero che la somma complessiva s’è contratta, le voci drasticamente ridimensionate riguardano le Overseas Contingency Operations (Oco), vale a dire quelle legate alle guerre in Iraq e Afganistan, che hanno divorato un mare di denaro, finito nelle tasche di industrie, società di servizi e potentati vari, nella stragrande maggioranza Usa.
Cessate quelle operazioni resta la spesa vera per armamenti che, nel 2014, con i suoi 581 Mld, supera quella dei successivi 10 maggiori bilanci militari al mondo e quella di Pechino di quattro volte, manifestando la precisa volontà di mantenere un apparato militare orientato non ad assicurare la sicurezza della Nazione, ma a perseguire gli interessi dell’imperialismo Usa ovunque Washington dovesse ritenere.
Ultima notazione che si evince dall’esame dei dati, è la stupefacente e persistente crescita in termini percentuali delle spese militari nei Paesi dell’Africa Sub Sahariana; tranne l’eccezione dell’Angola (+174% negli ultimi 10 anni), che spicca su tutti anche in termini assoluti, non sono cifre rilevanti, ma enormi se rapportate ai bilanci di Nazioni per lo più poverissime, alle prese con drammatiche crisi umanitarie, segnate dalla fame, carestie ripetute, sottosviluppo endemico e cronica mancanza d’infrastrutture.
È un’area caratterizzata da Stati semi-falliti o comunque in difficoltà, lacerati da conflitti endemici e insanguinati da crisi che hanno sullo sfondo gli interessi di potenze straniere. Le oligarchie che detengono il potere, il più delle volte per sfruttare le risorse naturali a fini personali in combutta con le varie multinazionali, spendono tutto ciò che possono per armare eserciti (spesso semplici milizie pretoriane) usati per reprimere ogni opposizione e mantenere i propri privilegi, incuranti delle condizioni drammatiche delle popolazioni. E tutto questo con l’assistenza e la complicità della potenza straniera egemone sul territorio: Francia, Usa, Inghilterra, Cina o Monarchie del Golfo che siano.
Circa 1.550 Mld di $, a questo ammonta il costo complessivo degli armamenti nel 2014, nella realtà anche maggiore perché molte spese vengono dissimulate fra le pieghe dei bilanci; un’immensità di risorse, previste in forte crescita per il 2015, che poco o nulla hanno a che vedere con la sicurezza e il mantenimento della pace (come troppe volte stucchevolmente dichiarato) e molto con l’avidità di imperialismi e cricche di potere.