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Trump, il businessman giocoliere

Il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, in politica estera sembra usare un atteggiamento molto liquido: non si riesce a comprendere con nitidezza dove finisce la “realtà” del suo pensiero e dove inizia la “sparata”. Si rivela dunque non solo interessante, ma anche curioso osservare i suoi voli per cercare di capire dove vuole atterrare. Con ogni probabilità hanno ragione gli iraniani quando commentano lo scambio di messaggi su Twitter, offensivi e in lettere maiuscole, fra il presidente Usa Donald Trump, il suo omologo Hassan Rouhani e il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, affermando che è tutta propaganda.

trump“The Donald” è prima di tutto un businessman, è abituato a trattare affari e allo stesso modo pare comportarsi nella pratica della più nobile (in teoria) tattica politica. In sintesi, l’impressione è che egli guardi materialmente solo ai soldi e al tornaconto dell’interesse nazionale (come se fosse un’azienda); Trump non fa politica, chiude affari. Solo che ultimamente in Medioriente gli affari esteri statunitensi tengono forse anche troppo a cuore gli interessi israeliani. Laggiù però, soprattutto in certi Paesi, il capitalismo rampante non è propriamente la prassi, ci sono altri nodi, altri legami e altri tempi.

Per capire il modus operandi di Trump, si prendano ad esempio diverse situazioni aperte e in ballo

Il contesto è quello del G7 senza la Russia. Trump dice di auspicare il rientro della Federazione tra i “grandi” della terra. Ma è noto che l’esclusione di Putin rappresenta una ritorsione dell’ex Presidente Obama e dell’Europa (in particolar modo della Germania e della Francia, per fortuna non dell’Italia) in merito alla vicenda Ucraina e all’annessione della Crimea. Di qui le sanzioni.

Il Presidente degli Usa, quale elemento fondamentale dell’Alleanza Atlantica, è a conoscenza o almeno si presuppone che lo sia, che dietro alle sanzioni c’è la politica di accerchiamento e di espansione a est della Nato. Ma allora, di fronte all’Europa e agli interessi strategici del blocco occidentale come può affermare di volere il rientro della Russia al tavolo dei Paesi più industrializzati? Perché lo afferma?

Per comprendere il paradosso basti pensare a quando il nuovo Presidente del Consiglio Italiano, Giuseppe Conte durante il discorso al Senato ha annunciato esplicitamente che il suo governo sarà fautore di un’apertura alla Russia e si farà promotore di una revisione al sistema delle sanzioni. Immediatamente è intervenuto il generale della Nato, Jens Stoltenberg, gelando ogni vigore e affermando il suo ok al dialogo, ribadendo però che le sanzioni sono fondamentali. E’ palese qui che l’interesse militare e quello strategico si compenetrano totalmente. Non che sia una novità, l’uso della forza armata è sempre interesse economico, ma con quale logica il Presidente degli Stati Uniti afferma quanto sopra detto? Qual è la sua posizione? Come vede il rapporto tra Europa e Russia, con la Germania in prima fila che vuole le sanzioni?

Economicamente parlando le misure restrittive nei confronti del Cremlino non sono significative per il suo Paese, dunque da uomo d’affari qual è probabilmente considera questa una “querelle” tutta europea. Cosa invece non si è fatto scrupolo di propagandare? I dazi sull’importazione di acciaio e alluminio e l’esportazione di gas naturale liquido, favorendo la produzione interna a stelle e strisce e la ripresa di quel comparto industriale da cui ha preso tanti voti. Gli Europei sono stati costretti a trattare affari.

In Cina, Trump urla meno perché c’è la questione del debito pubblico americano in mano alla potenza asiatica, ma ciò che poteva colpire ha colpito: sbandiera le tasse doganali sull’importazione dalla Repubblica Popolare per un valore di miliardi di dollari.

Altrove, in Medioriente, due questioni si affacciano inesorabilmente: il petrolio e il gas che equivalgono a tanti soldi e Israele. La simbiosi tra i due Paesi è tanto inequivocabile, quanto sciocca e pericolosa. Si parta da un presupposto, qui non è bene trattare la politica da manager, ma noncurante Trump pensa agli affari, affari che sono anche di famiglia se si pensa al marito della figlia Ivanka, Jared Kushner fin dall’inizio entrato per direttissima nella politica del suocero, costretto poi ad allontanarlo per ovvi motivi di conflitto d’interesse.

Vengono considerati solo incidenti di percorso gli scontri causati dallo spostamento dell’ambasciata americana, dalla nuova legge base che ha approvato da poco la Knesset che dichiara Israele ebraico in modo esclusivo, che declassa la lingua araba da nazionale a speciale e che protegge e incoraggia lo sviluppo d’insediamenti ebraici in quanto materia d’interesse nazionale.

E se Arabia Saudita e Iran si litigano le sfere d’influenza e i barili di petrolio, Israele allora è amico dei Sauditi poiché l’asse sciita ossia Siria, Iran ed Hezbollah in Libano sono i nemici di sempre. Fortunatamente nel ribollente calderone della situazione siriana ci sono state la politica estera della Russia e quella “dell’alleanza” sciita che hanno fermato in gran parte l’indegno gioco delle potenze occidentali e delle petro monarchie arabe sunnite.

L’Iran è ancora lì, Bashar al-Assad uguale e l’asse che bilancia il Medioriente ha tenuto. La decisione di Trump di uscire dal famoso accordo sul nucleare del 2015 è tutta una questione di petrolio: un’altra faccia dell’opera di destabilizzazione. L’eliminazione delle sanzioni ha liberato la potenza petrolifera dell’Iran e la stabilità dei prezzi; se il Presidente degli Usa deciderà realmente come afferma d’imporne di nuove, ci sarà una nuova esplosione del “Middle East” in quanto Teheran si sentirà autorizzata a proseguire il programma nucleare, di conseguenza l’Arabia Saudita farà lo stesso (e già per altro l’ha annunciato) e Israele avrà un motivo in più per attaccare apertamente la Repubblica Islamica. Assecondare i desideri d’Israele non è sempre molto pacifico a quanto sembra.

In tutto ciò l’Europa e la Turchia vogliono mantenere fede al “Jcpoa” Joint Comprehensive Plan of Action dei 5+1 perché in ballo ci sono commerci dal valore di miliardi di dollari e l’esportazioni di petrolio e gas.

In caso di nuovo embargo a rimetterci saranno l’Ue e l’Iran. Ci guadagneranno invece i Sauditi poiché loro sopperiranno ai barili di petrolio mancanti “persiani”, Israele per i motivi sopra esposti e gli Usa che dall’uscita dall’accordo potrebbero colpire gli affari europei più liberamente, dato che loro puntano all’autosufficienza energetica da qui a un paio di anni ma allo stesso tempo, si assicurerebbero l’indebolimento economico (e politico) del fondamentale asse strategico sciita.

Ma è di qualche giorno fa il nuovo fenomenale annuncio di “The Donald”: l’America è pronta a un nuovo accordo con l’Iran. Ecco il businessman giocoliere che alza i toni per poi rilanciare com’è successo con il felice esito dell’accordo con la Corea del Nord. Una domanda, perché il precedente voluto fortemente dall’Europa e dall’ex Presidente Obama non va bene? Si avvererà dunque lo scenario apocalittico sopra descritto oppure come hanno mangiato già la foglia gli iraniani, tutto è show e qualcosa di proficuo ne uscirà?

Intanto nel sud dell’Iraq, zona sciita, fa quasi 50 gradi e la gente è senza acqua. Il Medioriente non è un’azienda che naviga in mari sicuri, sono consigliabili toni bassi e pacificazione.

di Ilaria Parpaglioni

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