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Scattano le prospezioni di idrocarburi nell’Adriatico, ma l’Italia resta a guardare

di Salvo Ardizzone

Ne avevamo già parlato a febbraio scorso: nei fondali dell’Adriatico il petrolio c’è, e anche il gas. Sotto la spinta della crisi, allora s’era mossa la Croazia; il 2 aprile ha lanciato una gara per aggiudicare 29 blocchi di ricerca di idrocarburi, che coprono tutta la sua costa, da Pola a Dubrovnik. Le offerte si presenteranno il 3 novembre e l’Eni, che nelle estrazioni attive sulla costa già collabora con l’Ina (l’ex azienda di Stato croata, ora dell’ungherese Mol con Gazprom dietro), è in prima fila per l’aggiudicazione dei blocchi, in società con l’italo-francese Edison. L’obiettivo del Governo, pressato da una situazione economica disastrosa, è di firmare i contratti nel 2015 ed avviare la produzione entro 3–5 anni. 

Ma Zagabria non è la sola; tutti gli Stati della costa si sono lanciati nella corsa agli idrocarburi: il Montenegro, a fine 2013, ha indetto una gara per 10 blocchi di prospezione che s’è conclusa con sei offerte, fra cui l’immancabile Eni a braccetto con la russa Novatek, e prevede d’avviare le esplorazioni entro l’anno prossimo. L’Albania potrebbe seguire a breve; firmati i contratti con le compagnie (Eni ed Edison sono anche qui presenti), i pozzi saranno operativi nel 2018. Anche la Grecia sta bruciando le tappe: a inizio luglio ha convocato a Londra gli investitori per una gara sull’aggiudicazione di 20 blocchi lungo tutta la costa ionica e fino a dinanzi Creta; punta a rendere operative le concessioni entro un paio d’anni.  

E l’Italia? Quelle attività di esplorazione e sfruttamento a una manciata di miglia dalle nostre coste suonano come una beffa; dai primi anni ’90 le operazioni sul nostro versante dell’Adriatico sono state bloccate per eventuali rischi di subsidenza (sprofondamento del suolo) e poi d’inquinamento. Peccato che i vicini, come la Croazia, le prospezioni e le estrazioni le facciano già da tempo, alla faccia della subsidenza, delle nostre perplessità e di Venezia; così la beffa è duplice perché non solo godranno di quella ricchezza, ma, nel malaugurato caso d’inquinamento o di altri problemi, con le attività a un passo dalle nostre coste, i problemi li avremmo comunque tutti. 

Per quanto ci riguarda, non si tratta neppure d’una scommessa, secondo le stime della Strategia Energetica Nazionale del 2013, basate su ricerche parziali e fermate più d’un decennio fa, l’Italia potrebbe già contare su riserve certe, capaci di soddisfare l’intero fabbisogno nazionale per almeno cinque anni. E ripetiamo, si tratta di dati assolutamente incompleti.

La domanda è: possiamo permetterci questo lusso; il lusso, intendiamo, di trascurare quella ricchezza che abbiamo a portata di mano, mentre compriamo dall’Eni il gas e il petrolio che estrae appena qualche miglio più in là? Perché questo già avviene, come per il giacimento “Annamaria”, nell’Adriatico centrale, addirittura a cavallo del confine marino fra i due Paesi. Il Sistema Italia può permetterselo mentre gli approvvigionamenti dalla Libia divengono sempre più problematici, e non è dato sapere cosa verrà fuori dalla crisi ucraina? E comunque, con i problemi economici che abbiamo, quelle risorse sarebbero semplicemente preziose.

È ovvio che dovrebbero essere prese tutte le misure perché le attività vengano svolte in sicurezza, e le tecnologie ci sono tutte, basta imporre una gestione seria e controllare che venga applicata; di certo, potremmo vigilare meglio i nostri pozzi di quelli che in ogni caso gli altri ci trivellano già sotto il naso. 

È l’ennesima storia italiana, siamo bravissimi a farci male stupidamente; c’è da scommettere su come andrà a finire: dopo mille polemiche e tempi lunghissimi, s’arriverà magari a qualche autorizzazione, ma infarcita da tanti e tali caveat da rendere impossibili le attività. Così l’Eni continuerà a trivellare nel mare di Croazia, Montenegro, Albania e a venderci il petrolio e il gas di quei Paesi, facendo arricchire loro e pagare noi. È l’Italia. 

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