Salvataggio Ilva, l’ultima bufala targata Renzi
Il premier Renzi s’è più volte intestato il merito d’aver salvato la siderurgia italiana, con particolare riferimento all’Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, un colosso che ai tempi d’oro produceva 9 milioni di tonnellate di lavorati all’anno su 1.500 ettari di impianti. Da ultimo l’ha rivendicato con orgoglio in una recente comparsata televisiva, peccato che sia l’ennesima bufala destinata a ricadere dolorosamente sulle tasche di tutti gli italiani.
Di quell’impianto che produce inquinamento e morte, prendendo a ostaggio la popolazione di Taranto con l’ignobile ricatto lavoro o salute, abbiamo già parlato diverse volte, ma visto che sull’argomento c’è chi continua speculare raccontando panzane (Renzi e molti altri soggetti interessati), vorremmo riassumere una vicenda che per cinismo, avidità, inettitudine e collusioni varie è destinata a una inevitabile conclusione a spese della salute e delle tasche della collettività.
La famiglia Riva mise in funzione quel colossale polo siderurgico nel 1995, da allora, in spregio ad ogni norma, e nell’inerzia e la collusione delle autorità locali, l’Ilva ha avvelenato l’intera area finché, il 26 luglio del 2012, a seguito delle indagini del Nucleo Operativo Ecologico (Noe) dei Carabinieri di Lecce, la magistratura intervenne con l’inchiesta “Ambiente svenduto” mettendo la fabbrica sotto sequestro e operando numerosi arresti.
Da allora si sono succeduti una serie infinita di piani di risanamento, decreti legge e commissariamenti, che hanno visto tre commissari governativi, tre custodi giudiziari, un custode amministrativo e un commissario per le bonifiche tentare di tenere in vita un’azienda che inquina in maniera sconcertante, perde un botto di milioni al mese insieme alla clientela e ha accumulato debiti fino ad arrivare a tre miliardi.
A distanza di tre anni non è stato fatto ancora nulla di serio e per capirci, dei 110 milioni stanziati dal Governo per le bonifiche dei terreni contaminati dalla diossina fuori dall’azienda, finalmente stanno per essere spesi i primi due, con la rimozione di un milione di metri cubi di terra inquinata; peccato che per una bonifica seria complessiva se ne debbano rimuovere due miliardi, e poi c’è da capire a cosa serva se la fabbrica a tutt’oggi continua ad inquinare come sempre.
Sia come sia, i piani di risanamento prevedono il passaggio della produzione ad una nuova società sotto l’egida dello Stato, in attesa che la fabbrica risanata possa essere venduta. Ma in questi tempi di crisi, il comparto della siderurgia è boccheggiante e visto che in Europa c’è una potenzialità produttiva in esubero di 30 milioni di tonnellate, sono in molti ad augurarsi la scomparsa d’un colosso che da solo potrebbe produrne nove. Inoltre la fabbrica, sotto sequestro da anni, ormai cade a pezzi, tant’è che la sua produzione è ormai scadente e i clienti fuggono; sia per divenire appetibile per una vendita che per continuare a produrre, necessita di radicali interventi, ma occorrono una enormità di soldi.
La Newco, la nuova società statale che prenderà in affitto l’azienda per continuare la produzione in attesa di collocarla sul mercato, dovrà mettere nel piatto almeno 3,3 miliardi: 300 milioni per coprire la produzione in perdita nei prossimi mesi, 500 per le scorte, 300 per una manutenzione degli impianti da tempo abbandonati a se stessi, 200 per rifare un altoforno e infine almeno due miliardi per l’adeguamento alle prescrizioni ambientali; ma non è finita, perché dovrà pagare pure l’affitto al commissario dell’Ilva per gli impianti.
Per logica l’affitto d’una simile struttura, che macina perdite e che necessita d’una montagna d’investimenti, dovrebbe essere poco più che simbolico, ma una simile acciaieria da nuova varrebbe fino a 20 miliardi ed è facile che i periti fissino un canone da centinaia di milioni, che le casse dello Stato pagherebbero al commissario dell’Ilva Gnudi, il quale impiegherebbe quel fiume di denaro per liquidare i debiti della società che è stata dichiarata insolvente per tre miliardi dal Tribunale. E visto che di quei tre miliardi di debiti 1,45 sono delle banche, l’operazione convoglierà una barca di soldi dello Stato per far rientrare gli Istituti di Credito dalle loro esposizioni.
Ora, visto che è pura utopia pensare che:
lo Stato paghi sull’unghia 6,3 miliardi (3,3 per gli investimenti più necessari e 3 per ripianare i debiti dell’Ilva) in un settore che, sia pur strategico, è in profonda crisi;
ammesso si trovino i soldi per fare quegli interventi più urgenti e mettere in sicurezza il gigantesco impianto, si trovi poi chi si prenda in carico una fabbrica sotto sequestro, che continua ad inquinare e con probabili ulteriori procedimenti penali, pagando a sufficienza quanto vi si è speso;
in una situazione di contrazione di consumi e di spietata concorrenza, si riescano a recuperare i clienti che sono in rapida fuga da una produzione sempre più scadente a prezzi tutt’altro che competitivi;
tutta l’operazione sembra destinata a durare il tempo necessario a permettere che, attraverso un corposo affitto, le banche riescano a rientrare dai loro fidi incagliati.
Compiuto ciò, il Governo potrà dire d’aver fatto di tutto per salvare occupazione e ambiente, ma che è stato bloccato da magistrati, politici locali, sindacalisti e magari ambientalisti, e addio ai posti di lavoro e alla bonifica d’un intero territorio devastato, sfruttato e tenuto sotto un ignobile ricatto da chi ha ammassato una fortuna dal disprezzo arrogante per ogni norma (i Riva) con la sfacciata collusione di amministratori locali e responsabili dei controlli.
È una delle squallide storie all’italiana, ma fa ancora più disgusto il fatto che qualcuno voglia spacciare per meritoria questa sporca faccenda, che si concluderà con uno sperpero di soldi di tutti e con la beffa per migliaia di famiglie, illuse e poi private del lavoro.