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Ruanda: l’ombra di Israele sul genocidio del 1994

di Manuela Comito

Sono passati più di vent’anni dalla terribile strage che ha insanguinato il Ruanda nel 1994. Dal 6 aprile alla metà di luglio, per circa 100 giorni, vennero massacrate senza pietà da 800mila a 1 milione di persone, secondo le stime di Human Rights Watch, perlopiù donne e bambini appartenenti alla tribù Tutsi, ad opera di membri appartenenti alla tribù Hutu, che in Ruanda rappresenta circa l’89% della popolazione. La strage, compiuta a colpi di armi da fuoco, machete pangas e bastoni chiodati, fu una delle più efferate di sempre, ma ciò non bastò a scuotere la Comunità Internazionale, che non fece nulla per impedirla.

Il Ruanda è uno dei Paesi più poveri della terra, dove le tribù Hutu e Tutsi hanno convissuto pacificamente per secoli, fino all’arrivo dei colonizzatori europei. All’inizio del ‘900, tedeschi prima e, successivamente, belgi inserirono i membri della tribù Tutsi, più ricchi e più colti rispetto agli Hutu, nell’amministrazione coloniale, e l’inevitabile conseguenza fu un’accesa rivalità, esacerbata dalla successiva mossa delle autorità coloniali belghe, che redassero ‘carte d’identità etniche’ col risultato di rendere chiusi gruppi che prima non lo erano. Quando, alla fine degli anni ’50, i Tutsi intraprendono una guerra per l’indipendenza dai colonizzatori, i belgi mutano strategia finanziando e armando gli Hutu.

La dichiarazione dell’indipendenza del Ruanda nel 1959 non porta con sé la pace. La guerra civile è più accesa e sanguinosa che mai e le stragi (nel 1963, nel 1972 e nel 1973) si susseguono e causano migliaia di vittime innocenti da entrambe le parti. Rispetto ai precedenti, il massacro del 1994 si contraddistingue per una feroce e capillare campagna d’odio sostenuta dalla radio, la tristemente nota ‘Radio television libre de milles collines’, che trasmette a ripetizione la canzone “Iye tubatsembatsembe” il cui ritornello recita: “sterminiamoli, sterminiamoli”. Le vittime sono a maggioranza Tutsi, ma vengono assassinati anche gli Hutu moderati, con armi leggere e con i micidiali bastoni chiodati, che provocano ferite orribili e causano la morte tra atroci sofferenze.

L’eccidio termina ufficialmente il 4 luglio, con la tardiva operazione Turquoise, una missione condotta dai francesi sotto mandato dell’Onu. E sulla questione delle armi è stato chiamato in causa, qualche giorno fa, il governo israeliano. Sembra che un ingente quantitativo di armi leggere (fucili, pallottole e granate), fosse partito dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, e che l’allora premier israeliano Yitzhak Rabin e il ministro degli Esteri Shimon Peres fossero pienamente al corrente di quanto stava accadendo. Le prove, secondo quanto riportato da Irib “si sono accumulate nel corso degli anni, documentate anche dagli israeliani che hanno visitato il Ruanda durante il massacro o poco dopo”. Il 3 dicembre su Haaretz, uno dei più importanti quotidiani israeliani, è comparso un articolo intitolato “The Israeli guns that took part in the Rwanda genocide”, in cui si legge che “il tribunale di Tel Aviv ha respinto una petizione per rivelare la documentazione delle esportazioni di armi al governo Hutu negli anni ’90”.

Nel frattempo, sempre secondo quanto riportato da Irib, “Qualche giorno fa un tribunale locale ha ricevuto ordine dal regime Netanyahu di non pubblicare le prove sul coinvolgimento dei sionisti nel massacro del 1994, perché avrebbe delle conseguenze per l’incolumità dei cittadini israeliani”. L’8 novembre 1994 è stato istituito dall’Onu il Tribunale internazionale per il Ruanda che almeno fino ad ora ha chiamato in causa e punito solo alcuni degli esecutori materiali ma non ha colpito i veri responsabili, che rimangono ad oggi impuniti: coloro che fornirono le armi al governo Hutu e i media che alimentarono una vergognosa campagna d’odio.

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