Donne “ribelli” di ieri, monito per i giorni nostri
Donne “ribelli” di ieri, monito per i giorni nostri – Gli ospedali psichiatrici esistevano in Italia già dal XV secolo, privi di normative, spesso fatiscenti, luoghi di sperimentazione, dove il malato era sottoposto a torture piuttosto che a cure e terapie, condannato a un vero e proprio regime di detenzione. La prima legge a regolamentarli è quella del 1904, proposta due anni prima da Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio dei ministri del Regno D’Italia. Era una legge che comunque non teneva conto del malato come persona con i propri diritti e bisogni, sanciva il principio secondo il quale a essere internati potevano essere anche persone che non avevano un disturbo psichico, ma che erano ritenute pericolose e improduttive, o semplicemente di “pubblico scandalo”.
Con l’avvento del fascismo le cose peggiorarono. Il Codice Rocco entrò in vigore nel 1931 e stabilì che gli internati fossero iscritti al casellario giudiziario. Ciò che agevolava ulteriormente l’internamento di molte persone non malate era il fatto che a segnalarle alle strutture poteva essere chiunque, mentre la testimonianza del soggetto segnalato non veniva considerata.
Fra la popolazione, a pagare il prezzo più alto furono le donne: madri, mogli, figlie, vedove, artiste rinchiuse nei manicomi perché non corrispondevano al modello di donna promosso dallo Stato. La donna, infatti, doveva assolvere il solo ruolo a lei destinato, quello di accuditrice della famiglia e soprattutto genitrice di nuova prole per favorire lo sviluppo della patria. Erano considerate “donne deviate” quante rifiutavano con determinazione di sposarsi o di avere una gravidanza e chi voleva proseguire gli studi anziché dedicarsi alla vita domestica.
Il destino delle donne
Spesso erano gli stessi famigliari a condurle negli istituti psichiatrici, giudicando figlie o sorelle insane per quell’atteggiamento trasgressivo, l’abitudine a uscire da casa troppo spesso, a dedicarsi a hobby e amicizie trascurando i propri doveri di donne, mogli o madri. Bastava dimostrarsi apertamente insofferenti a queste regole, cercare una vita differente a quella impostata dalla società dell’epoca, essere tenaci e libere, per essere considerate sovversive, pericolose, di scandalo pubblico.
Un capitolo a parte andrebbe dedicato a tutte quelle donne alle quali non era perdonata la depressione post partum e perciò definite “madri snaturate”, per chi s’innamorava di un uomo ritenuto indegno dalla propria famiglia d’origine, per quante volevano lasciare il marito violento, o ancora per le donne omosessuali internate per la loro “immoralità costituzionale”.
Le bambine di qualunque età, specie se orfane, a volte passavano direttamente dall’orfanotrofio all’istituto di igiene mentale. Lo Stato imponeva che fossero le provincie di pertinenza a sostenere le spese di mantenimento di quanti erano rinchiusi nei manicomi; anche per questo molte famiglie povere o incapaci di prendersi cura dei figli iperattivi o con lievi disabilità decidevano di internarli. Le spese di trasferimento dai più remoti paesini fino alle strutture psichiatriche erano interamente a carico dei comuni di provenienza. Era nell’interesse della nazione confinare nel buio e nel silenzio dei manicomi i più deboli e chi non era conforme ai modelli culturali di matrice positivista. Finivano internate per “deficienza etica e amoralità” le prostitute.
Donne e il giudizio dei medici
Si entrava in istituto per un periodo di osservazione e si poteva non uscirne più. I criteri di giudizio dei medici si basavano sul modello di normalità che lo Stato aveva stabilito, menzionando spesso nelle cartelle cliniche delle pazienti il fattore endogeno congenito o acquisito che ne rappresentava la condizione favorevole allo sviluppo delle malattie mentali. Tutti i comportamenti ritenuti “trasgressivi” erano sintomo di alienazione mentale.
Sempre a causa del Codice Rocco, subire uno stupro era paradossalmente una delle motivazioni che conduceva molte donne all’interno di quelle mura maledette. Lo stupro era considerato un “reato contro la morale” e non contro la persona, la colpa di chi lo subiva era quella di non essere stata capace di sottrarsi alla violenza, cosa che la rendeva di per sé incapace di intendere e di volere. Nel caso in cui la vittima di stupro non fosse giudicata pazza, poteva tornare a casa, ma restava macchiata per sempre dall’etichetta di donna facile, la “malafemmina”, la bugiarda accusatrice.
Il “dopo” della seconda guerra mondiale
Gli anni della seconda guerra mondiale, con i lunghi combattimenti in aree molto popolate, le incursioni aeree e i devastanti bombardamenti provocarono nella popolazione, e non solo nei militari sopravvissuti, dei forti traumi che sfociarono in vere e proprie patologie, fra cui crisi isteriche e disturbi nervosi da stress post bellico. Il sovraffollamento degli ospedali psichiatrici fu uno dei problemi che portò le strutture a un decadimento sotto ogni aspetto e, fortunatamente, anche a una nuova presa di coscienza.
Nel 1965, l’allora Ministro della Sanità, Luigi Mariotti, denuncia pubblicamente le condizioni in cui versano i ricoverati all’interno dei manicomi, paragonando gli istituti psichiatrici a dei campi di concentramento. Passeranno ancora alcuni anni prima che arrivi la legge 180 del 13 Maggio del 1978 che abolì gli ospedali psichiatrici. La legge prende il nome dallo psichiatra Franco Basaglia che, alla direzione del manicomio di Gorizia, fu promotore di un nuovo modo di concepire la malattia mentale, restituendo dignità ai pazienti, eliminando l’uso di elettroshock e la pratica di sedare i pazienti (che in certi casi erano ridotti volutamente al coma insulinico), introducendo attività ricreative, anche all’aperto.
Tuttavia la chiusura dei manicomi richiederà molto tempo. Fino al 2005, a quasi trent’anni di distanza dall’approvazione della legge, erano presenti in Italia quattro strutture private attive, fra la quale quella di Villa Stagno a Palermo, riconvertita in seguito in comunità terapeutica addetta alla riabilitazione psichiatrica.
Una lezione da non dimenticare
Ricordare a quale livello di meschinità fu capace di abbassarsi la civiltà italiana è indispensabile. Non si può permettere che l’autodeterminazione femminile venga ancora una volta confusa per stravaganza o additata come “un’irregolarità”, un’anomalia da reprimere e riformare, stavolta attraverso il ritorno a leggi retrograde contro le donne o a tribunali che sentenziano assoluzioni e riduzioni della pena con giustificazioni assurde a tutela di stupratori e assassini.
La violenza contro la donna, in tutte le sue forme, è sempre un’espressione conclamata di disprezzo verso il genere femminile e non può mai essere banalizzato.
di Anna Lisa Maugeri