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Libano, la realtà nei campi profughi palestinesi

Libano – “È inutile che i nostri giovani si mettano in testa di diventare medici, professori o avvocati, devono solo imparare un mestiere manuale il prima possibile e pensare a sopravvivere.” In qualsiasi situazione, queste parole suonerebbero estreme e ingiuste, ma quando Abu Wassim, amministratore e abitante del campo profughi di Bourj el-Shamali a Tiro, nel sud del Libano, le pronuncia, in modo pacato e lento come suo solito, nessuno ha il coraggio di ribattere. Perché amministrare uno dei campi profughi palestinesi più poveri del Libano non è cosa facile, e nei 70 anni che sono passati dalla Nakba a oggi, Abu Wassim e i suoi connazionali hanno avuto tutto il tempo di smettere di sognare.

Con una popolazione di circa 22mila abitanti, Bourj el-Shamali è stato costruito dal 1948 al 1955 come soluzione “di emergenza” per accogliere i profughi che dal nord della Palestina, interamente epurata, si sono riversati in Libano dopo la creazione dello stato di Israele e la pulizia etnica avvenuta con la sistematica espulsione dei nativi dalla loro terra, come stabilito dall’originario “Piano D” messo a punto nel 1947 nella Red House di Tel Aviv, allora quartier generale della Hagana, milizia sionista. In sei mesi le forze di occupazione hanno portato a termine la missione originale: più di metà della popolazione palestinese (circa 800mila persone) è stata sradicata dalle loro origini, 531 villaggi distrutti, undici centri abitati svuotati.

Oggi il campo di Bourj el-Shamali, da prima emergenza è diventato luogo di residenza permanente per una popolazione che continua a ereditare da più di sessant’anni l’assurda identità di profughi, vittime dell’impotenza e dell’inettitudine dell’Onu e dell’intera comunità internazionale nel far fronte a un’emergenza umanitaria e nel mettere un freno all’arroganza e alle continue aggressioni dell’entità sionista. “Dopo l’espulsione ci hanno fatto aspettare al confine,” racconta Abu Wassim, “e l’Onu ci aveva promesso che saremmo potuti tornare in Palestina. Ma poco dopo ci hanno smistati in tutto il Libano.”

Nel campo circa 400 case sono fatiscenti e in condizioni non adatte per viverci, con tetto in zinco che le rende troppo calde d’estate e fredde e umide d’inverno. In un chilometro quadrato vivono più di 20mila persone, di cui il 70 per cento lavora stagionalmente in campo agricolo, dopo aver ottenuto un permesso speciale, per 12 dollari al giorno, la disoccupazione è del 65 per cento tra gli uomini e 90 per cento tra le donne, e la maggior parte degli abitanti vive sotto la soglia di povertà.

La vita sociale è difficile, i ragazzi passano troppo tempo nelle strade, non hanno lavoro e dopo che hanno superato l’età scolare non sanno più cosa fare e dove andare. Il sistema educativo è regolato dalle Nazioni Unite, ma il liceo non li prepara in modo adeguato e la maggior parte non supera l’esame per accedere all’università. Anche il sistema sanitario è regolato dall’Onu, “ma una clinica aperta dalle 8 del mattino alle 3 del pomeriggio con un solo medico non è abbastanza,” si lamenta Abu Wassim, che amministra anche la Ong Beit Aftal Assumoud con l’obiettivo di fornire assistenza finanziaria e sanitaria a 68 famiglie e 155 bambini attraverso attività ricreative per ragazzi e una clinica nella loro sede. Con 14 impiegati e volontari dal Libano e da altri Paesi, Beit Aftal Assumoud si affida a donazioni che arrivano dall’Onu o da privati.

Dopo 64 anni, gli abitanti di Bourj el-Shamali e degli altri campi profughi di Libano, Siria e Giordania, hanno smesso di sperare e di credere che qualcuno ha davvero l’intenzione e la buona volontà di aiutarli. “Non c’è nessuna comunità internazionale,” mi dice Abu Wassim. “Quante risoluzioni sono state emesse dall’Onu dal ’48 ad oggi? Non è successo niente, non hanno prodotto nessun risultato, le Nazioni Unite non hanno la capacità di aiutare i Palestinesi. Ogni giorno qualcuno viene qui nella sede di Beit Aftal Assumoud a dirmi che ha bisogno di un’operazione chirurgica. Proprio ieri è venuta una ragazza di 16 anni per essere operata, il costo dell’intervento è di 4000 dollari, e l’Onu ha dato 500 dollari. Come andrà a finire? Che la ragazza non si sottoporrà all’intervento”.

“Abbiamo ben poco in cui sperare,” continua Abu Wassim. “La comunità internazionale ha fallito nel garantire i diritti umani fondamentali alla popolazione palestinese”.

di Angela Corrias

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