Le radici contorte dell’Unione Europea
Un fantasma si aggirava per l’Europa e se fosse stato lo spettro del comunismo si sarebbero preoccupati tutti di meno, ma si trattava del mito della sovranità popolare e allora era davvero un problema serio. In realtà era da un po’ che apparteneva al passato, smussata com’era già stata per mano dei singoli Stati membri. Ma, evidentemente, la prospettiva di un’Europa unita aveva riacceso le speranze di chi pretendeva che si trattasse di un unione di popoli e non di mercati. Erano tutti là, dunque, i signori del Vecchio Mondo, a pensare a una soluzione, quando a uno di loro passò una bizzarra idea per la testa. Una volta affinata e collaudata sul piano teorico, decise di proporla a quelli della sua cerchia perché anche loro potessero prenderla in esame. Dopo gran pensare e analizzare, giunsero tutti alla conclusione che non era solo una bella intuizione, ma un qualcosa che poteva essere innalzato a un vero e proprio metodo. Un modus operandi che pareva essere perfetto per governare l’Unione Europea, senza il peso di alcuna sovranità che non fosse la loro.
Così nel 1999, rilasciando un’intervista al tedesco Der Spiegel, Jean-Claude Juncker, colui che si era fatto venire la bella idea, spiegò al giornalista, in cosa consisteva questo suo metodo. Le sue parole, riportate dal settimanale di Amburgo, furono queste: “Noi prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’, per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti, passo dopo passo, fino al punto di non ritorno”.
Senza nulla voler togliere all’arguto Jean-Claude, la sua pensata non era altro che una variante della strategia della “rana bollita”, che in molti attribuiscono a Noam Chomsky. Si tratta di una parabola che dimostra come, quando un cambiamento viene portato a termine in maniera sufficientemente lenta, la percezione che qualcosa sta cambiando tende a sfuggire alla coscienza e pertanto non suscita reazioni immediate o violente, ma tutto viene accettato passivamente e pacificamente. In alcuni casi si aggiungono anche le componenti della preoccupazione e del timore per il futuro, e sono questi i casi in cui bisogna brindare, perché la paura rende il timorato maggiormente indifeso e quindi più incline alla rassegnazione e all’accettazione delle condizioni che gli verranno imposte.
Ed è così che molti dei diritti per i quali in passato si era tanto lottato, hanno iniziato lentamente ad essere corrosi e hanno gradualmente subito una capitis deminutio, fino a essere ridotti a una sbiadita immagine di ciò che erano un tempo. Ciò che una quarantina di anni fa avrebbe causato scioperi e rivolte di piazza, oggi non suscita alcuno scandalo. Sono accadimenti di fronte ai quali siamo rassegnati o, peggio, nei confronti dei quali assumiamo un atteggiamento cinico e indifferente.
Una delle conseguenze nefaste di questa manipolazione è che le parole perdono il loro significato, il linguaggio diventa evocativo e si sgancia dalla realtà, finendo per essere solo lo strumento che rompe il legame tra struttura e sovrastruttura, come già aveva intuito Pier Paolo Pasolini. Si ottengono così tutta una serie di formule vuote, di concetti privi di reale significato che hanno la funzione di garantire una patina di rispetto delle regole, di trasparenza nelle operazioni e, in ultima analisi, di illusione di democrazia.
E di finta democrazia realmente si tratta, se è vero, com’è vero, che nel florilegio di istituzioni, agenzie, autorità, uffici e quant’altro si possa trovare nell’architettura dell’Unione Europea, solo il Parlamento è realmente elettivo. Tutti gli altri sono organismi composti da individui che non hanno ricevuto alcun mandato e che quindi non hanno ottenuto fiducia alcuna per svolgere i delicatissimi compiti che derivano dalle loro mansioni.
Eppure molte costituzioni, compresa la nostra, attribuiscono la sovranità ai popoli e si preoccupano di chiarirlo in maniera inequivocabile nella sezione dedicata ai principi fondamentali. Ma poi che cosa vuol dire sovranità popolare?
Dire che il popolo è sovrano, dovrebbe significare che dalla volontà dei cittadini sgorga e si sostanzia il processo decisionale che porta all’adozione delle scelte che riguardano la collettività. Pertanto lo stesso potere dello Stato è legittimato dalla volontà espressa dalla maggioranza dei suoi cittadini. La sovranità popolare si configura dunque come una determinazione giuridica della potestas, che è la facoltà giuridicamente riconosciuta di esercitare un potere. E’ questo che conferisce allo Stato, e alle sue articolazioni, il monopolio della gestione della cosa pubblica, tanto che tale amministrazione viene sempre effettuata nel nome e per conto degli individui che compongono quello Stato. Attenzione, gli individui che compongono quello Stato, non i membri di altri stati o peggio di istituzioni sovranazionali non rappresentative e quindi indipendenti da qualsiasi Stato.
Il motivo è duplice. Il primo è evitare un’ingerenza da parte di terzi nei diritti di autodeterminarsi e autogestirsi che ogni stato sovrano ha per definizione. Il secondo si basa sul fatto che non è accettabile che a decidere della gestione della cosa pubblica, siano individui sulle cui sfere giuridiche non ricadano le conseguenze delle scelte adottate. Se così fosse, potrebbe capitare, come purtroppo di fatto capita, che senza aver compiuto scelta alcuna, i cittadini di uno Stato si trovino ad affrontare problemi che sono stati creati da scelte compiute da terzi. Pensiamo solo a come la politica monetaria della Bce si riversi su oltre trecento milioni di persone, senza che nessuno senta il bisogno di legare il suo operato a un vincolo di rappresentanza.
Certo anche la sovranità popolare incontra dei limiti, come ad esempio si evince dal secondo comma del primo articolo del nostro dettato costituzionale. Nel caso dell’Unione Europea, ad esempio, per facilitare e incentivare la cooperazione tra i popoli di differenti Paesi, si era deciso di comprimere la sovranità di ogni Stato, chiedendo ad ogni membro di abdicare parzialmente alla propria potestà, così da creare un organismo sovranazionale che si facesse portatore delle necessità di tutti i suoi membri, pervenendo, con unità di intenti e di azioni, a promuovere e conseguire uno sviluppo e un benessere diffuso. Restava inteso che si sarebbe dovuto trattare di compressione e non di soppressione della sovranità popolare. In altre parole, si dava il consenso a creare istituzioni sovranazionali, a patto che queste venissero rette con metodo democratico e rappresentativo.
Ma gli artefici del progetto dell’Europa unita si sono fatti prendere la mano. Costoro, dopo aver fatto allettanti promesse, hanno tradito le aspettative dei popoli e hanno creato un’unione dove il principio di rappresentanza semplicemente era stato omesso. Non per dimenticanza, sia chiaro, ma per la precisa volontà di impedire che venisse creato ciò che loro non volevano: un’unione di popoli. L’obiettivo di coloro che puntavano a escludere i popoli dal processo decisionale, era quello di creare un’Europa esattamente come quella che abbiamo oggi, in cui votano tanti, decidono in pochissimi e nessuno risponde. Nessuno, infatti, si può assumere la responsabilità politica delle scelte compiute, perché il potere è stato burocratizzato, di fatto smaterializzato, in altre parole sottratto alla politica, per essere gestito su un altro tavolo, quello dove si siedono solo i magnati e i loro crumiri.
Non vorremmo però essere fraintesi. Non si tratta di dietrologia o di complottismo. Le ragioni che hanno portato alla creazione dell’Unione Europea, nella forma che conosciamo, secondo alcuni, si spiegherebbero anche in considerazione di quel rapido processo di globalizzazione che ha interessato tutti i Paesi, a partire dalle economie europee, fino ad arrivare anche ad alcuni Stati emergenti nel cosiddetto Terzo Mondo.
La globalizzazione non ha trasformato solo le economie, i mercati e la finanza dell’intero pianeta. E’ riuscita anche a incidere profondamente nella creazione dei valori di riferimento e nell’affermazione di una paura nuova, successivamente innalzata a ragione unica dell’agire politico: la competitività globale. In un mondo senza più confini, dove la piccola bottega si trovava ad agire sullo stesso terreno della multinazionale e le distanze tra i diversi Paesi venivano in un sol colpo annullate, era comprensibile che il timore di non perdere quote di mercato avrebbe avuto conseguenze anche nella gestione della cosa comune. Così le sovranità dei popoli, e con esse quelle degli Stati membri, sono diventate dei fantasmi fastidiosi che bisognava chiudere sotto chiave per esibire solo nei giorni di festa.
Inoltre accantonare la sovranità popolare ha avuto un’altra conseguenza disastrosa. Poiché si riducono, fino a quasi sparire, le istituzioni rappresentative, di fatto il processo decisionale viene esternalizzato. Viene, cioè, affidato a organi che si comportano come aziende private, che gestiscono il processo decisionale ispirati da una ratio che un organismo pubblico difficilmente perseguirebbe.
Un esempio della pericolosità di questa abnorme struttura non rappresentativa che l’Europa si è data, è rinvenibile nelle trattative in tema di Ttip, che negli ultimi anni tengono banco tra Ue e Usa. Per ben due anni, fino all’Ottobre del 2014, nessuno conosceva la reale portata del negoziato, nessuno sapeva nemmeno di cosa si stesse realmente discutendo, visto che l’Ue aveva segretato tutti i documenti. Pertanto nessun parlamentare europeo o di qualsiasi Paese membro era al corrente del contenuto della trattato che veniva negoziato tra istituzioni non elettive, che di fatto annullavano il principio di sovranità popolare, anche nella sua versione indiretta o mediata.
Alla luce di tutte queste considerazioni occorre rilevare che l’Europa sta attraversando un momento delicato. E quando si attraversa, occorre guardarsi attorno con attenzione, per evitare di essere travolti dagli eventi. Occorre dunque che ci prendiamo cura di quel poco che ci resta di sovranità, per evitare che in un prossimo futuro essa finisca rilegata in cantina, a far compagnia a quei tre concetti antichi, egalitè, fraternitè et libertè, che, come qualcuno ebbe a dire, sono usciti come terno secco sulla ruota di Parigi molto tempo fa e da allora non si sono più visti.
di Giovanni Rodini