Rachel Corrie: “Credo che la parola giusta sia dignità”
Rachel Corrie, 23 anni, attivista statunitense, è stata assassinata il 16 marzo 2003 schiacciata da un bulldozer D9 israeliano. Rachel era membro dell’International Solidarity Movement (Ism) e insieme ad altri sei attivisti, tre britannici e tre statunitensi, stava cercando di impedire le operazioni di demolizioni a Rafah. Il 16 marzo 2003, due bulldozer scortati da un veicolo da combattimento israeliano stavano demolendo le abitazioni nella zona, anche se la versione israeliana parla di operazioni mirate a portare alla luce ordigni esplosivi e distruggere tunnel di contrabbando.
Per ben due ore il gruppo aveva cercato di ostacolare i bulldozer, mentre i militari sparavano gas lacrimogeni per disperdere gli attivisti dell’Ism. Rachel salì su un mucchio di terra accatastato da uno dei due veicoli e si pose al di sopra del livello della cabina, facendosi vedere bene dall’operatore. A un certo punto, la situazione precipitò: il bulldozer cominciò ad avanzare malgrado la presenza della ragazza e i testimoni oculari riferirono che il veicolo la colpì, le passò sopra, fece marcia indietro e la schiacciò una seconda volta.
Solo un incidente…
Secondo la versione ufficiale dell’esercito israeliano, l’autista della ruspa non vide Rachel che era scivolata, ma Tom Dale, testimone oculare, riferì: “Il bulldozer avanzava lentamente. Quando lei è scivolata tutti noi siamo corsi verso il bulldozer perché si fermasse, ma chi guidava ha proseguito”. Un mese dopo, l’esercito israeliano diffuse una versione dei fatti che scagionò il proprio operatore, imputando la colpa dell’accaduto al comportamento “illegale, irresponsabile e pericoloso” dei dimostranti.
Le fotografie scattate dai compagni di Rachel e le dichiarazioni rilasciate dai testimoni oculari smentirono questa versione: Rachel fu investita e uccisa dal bulldozer mentre compiva un’azione di resistenza pacifica alla distruzione di un’abitazione palestinese. Il giudice del tribunale distrettuale di Haifa, Oded Gershon, il 28 agosto 2012 ha respinto, dopo un giudizio durato circa sette anni, la richiesta di risarcimento danni avanzata dai genitori di Rachel nei confronti dello Stato d’Israele.
L’aberrante sentenza
Secondo quest’aberrante sentenza, la morte di Rachel fu un incidente, causato dalla stessa attivista che si espose ad una situazione di pericolo. Un incidente, come la morte di James Henry Dominic Miller, ucciso da un militare israeliano il 2 maggio 2003 mentre stava girando un documentario a Rafah; un incidente come l’assassinio di Tom Hurndall, fotografo britannico di 22 anni, che l’11 aprile 2004 venne lasciato in uno stato di morte celebrale dopo che un soldato israeliano gli aveva sparato alla testa. Tutti incidenti, tutti impuniti.
Dopo l’annuncio del verdetto, l’avvocato della famiglia Corrie, Abu Hussein, lesse questa dichiarazione: “Sebbene non ci sorprenda, questo verdetto è l’ennesimo esempio di come l’impunità abbia prevalso sulla credibilità e la correttezza. Rachel Corrie venne uccisa mentre manifestava in modo non violento contro la demolizione di una casa, i danneggiamenti e l’ingiustizia a Gaza. Oggi questa Corte ha dato il suo benestare a pratiche illegali che falliscono nel proteggere le vite dei civili. A questo proposito, il verdetto accusa la vittima basandosi su fatti distorti e avrebbe potuto essere scritto direttamente dal pubblico ministero. Sapevamo fin dall’inizio che avremmo dovuto sostenere una battaglia tutta in salita per ottenere verità e giustizia, ma siamo convinti che questo verdetto distorca le prove molto forti che abbiamo presentato in tribunale e contraddica i principi fondamentali del Diritto Internazionale relativamente alla protezione dei difensori dei diritti umani”.
Lettera di Rachel Corrie
Il caso di Rachel Corrie ha messo in luce in maniera impressionante e inequivocabile la mancanza di responsabilità e l’impunità dei militari israeliani che commettono crimini contro i civili palestinesi. A 20 anni dal suo feroce assassinio, è nostro dovere ricordare Rachel e pensiamo che, a questo scopo, niente sia più adatto delle sue parole, tratte da alcune lettere che la ragazza scrisse ai genitori nel periodo in cui si trovava in Palestina, poco prima di essere uccisa:
“Quando l’esplosivo è saltato ieri, ha rotto tutte le finestre nella casa della famiglia. Mi stavano servendo del tè, mentre giocavo con i bambini. Adesso è un brutto momento per me. Mi viene la nausea ad essere trattata sempre con tanta dolcezza da persone che vanno incontro alla catastrofe. So che visto dagli Stati Uniti, tutto questo sembra iperbole. Sinceramente, la grande gentilezza della gente qui, assieme ai tremendi segni di deliberata distruzione delle loro vite, mi fa sembrare tutto così irreale. Non riesco a credere che qualcosa di questo genere possa succedere nel mondo senza che si sollevi un’enorme indignazione. Mi colpisce davvero, come già mi era successo in passato, vedere come possiamo far diventare così orribile questo mondo… ho scritto tanto sulla delusione di scoprire, in qualche misura direttamente, di quanta malignità siamo ancora capaci. Ma è giusto aggiungere, almeno di sfuggita, che sto anche scoprendo una forza straordinaria e una capacità elementare dell’essere umano di mantenersi umano anche nelle circostanze più terribili, anche di questo non avevo mai fatto esperienza in modo così forte. Credo che la parola giusta sia dignità”.
di Manuela Comito