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Quel giorno a Sabra e Chatila

Tra il 16 e il 18 settembre del 1982 a Beirut Ovest, migliaia di persone furono uccise per mano delle milizie cristiane libanesi in un’area direttamente controllata dalle forze israeliane. Una enorme carneficina, un orrore senza fine ricordato come il massacro di Sabra e Chatila, due campi profughi palestinesi alla periferia di Beirut. L’operazione chiamata “Pace in Galilea” aveva permesso a Israele di invadere per la seconda volta il Libano, seminando ancora morte e terrore.

“È il 16 settembre, quel giorno del 1982 ero al sindacato metalmeccanici di Milano e a Sabra e Chatila inermi palestinesi venivano massacrati – così Luisa Morgantini, già Vice Presidente del Parlamento Europeo, ricorda l’avvenimento – Per la prima volta per me i palestinesi cominciarono ad esistere e nei miei occhi si presentava Guernica di Picasso, lo stesso cavallo bianco, quando per la prima volta visitai i campi di Sabra e Chatila”.

Nel 1985, la vita ricominciava ma il dolore per tutti i morti compresi civili libanesi era tutto presente, nella moschea, nell’ospedale, nel cimitero che era solo discarica. I maroniti colpevoli del massacro e gli israeliani con in testa Ariel Sharon, il “Macellaio”, non hanno mai pagato per i loro crimini. L’ingiustizia continua, così come continua la brutale aggressione e occupazione militare nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Ariel Sharon, il “Macellaio” di Sabra e Chatila

L’11 settembre 1982 Sharon dichiarò che a Sabra e Chatila “ci sono ancora 2mila terroristi”. Martedì 14, venne ucciso Bechir Gemayel, il presidente falangista libanese alleato di Israele. Mercoledì 15, l’esercito israeliano entrò a Beirut ovest e circondò i campi affidando ai falangisti la loro «ripulitura». Giovedì 16, ebbe inizio il massacro che sarebbe durato fino a sabato 18. Lunedì 20, Reagan annunciò il ritorno delle forze multinazionali incaricate di «proteggere i palestinesi». La strage era compiuta e la coscienza dell’Occidente salva”.

Oggi i quartieri di Sabra e Chatila non sono cambiati molto; l’uno accanto all’altro, non hanno più nemmeno un confine ben distinguibile. Sono ancora densamente popolati con le case che crescono in altezza impedendo ai raggi del sole di penetrare, come dice Jamile Shehade, direttrice del centro di Sabra e Chatila di Beit Atfal Assomoud, l’organizzazione non governativa palestinese che dal 1976 lavora nei campi profughi libanesi. “Prima del 1982 tutte le case avevano piante e fiori, ma ora non ci sono elettricità né acqua potabile e le piante non possono sopravvivere”, afferma Jamile Shehade.

di Yahya Sorbello

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