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Per una lettura non conforme del femminicidio – I parte: i dati reali

di Federico Cenci

In Italia si fa un gran parlare, negli ultimi tempi, della violenza sulle donne. Il femminicidio – termine ignoto sino a poco tempo fa – è oggi uno dei più inflazionati argomenti di stampa e tv. Esecrandi fatti di cronaca che raccontano di donne picchiate e uccise da uomini, sovente dai loro compagni/mariti, catalizzano le attenzioni dell’opinione pubblica, alimentano il dibattito e generano l’impegno a contrastare il turpe stillicidio per via legislativa.

Posto che anche un solo omicidio – nei confronti di chicchessia, donna o uomo – è un atto intollerabile e meritevole di biasimo, è importante rilevare che il femminicidio, giacché divenuto un fenomeno mediatico, rischia di alterare la nostra percezione della realtà. L’idea che ci contagia, per via dell’onda emotiva creata dai media, è che il numero di vittime femminili della violenza maschile sia in esteso aumento. E che la causa sia riconducibile al maschilismo che alligna come un germe apparentemente inestirpabile nella cultura del nostro Paese.

La prima vera notizia è che la violenza omicida sulle donne non registra un aumento, piuttosto sta diminuendo. Proprio così, una lettura scevra da condizionamenti, quella dei dati Istat, lo conferma: nel 2012 le donne uccise sono state 124, nel 2010 furono 156, 172 nel 2009 e ben 192 nel 2003, che rappresenta il picco degli ultimi dieci anni. Lutti degni di rispetto, dati forieri di costernazione – certo – ma che dimostrano in modo inequivocabile che il fenomeno non si sta estendendo come molti giornali e politici vogliono farci credere. Nonostante l’enfasi mediatica che, purtroppo ma inevitabilmente, può produrre in qualche folle la tendenza all’emulazione.

Eppure, la pubblicazione di questi dati Istat non placa l’agitazione di costoro, dei “Repubblica” e delle Boldrini di turno, ossia di chi vuole fare del femminicidio un allarme sociale da contrastare con leggi ad hoc, ritenendo insufficiente quanto già abbondantemente previsto dal nostro codice penale. Pertanto, l’obiezione che viene sollevata è la seguente: cala il tasso di omicidi generale verso le donne, ma aumenta quello particolare che fa riferimento a donne uccise dai compagni/mariti. Un’affermazione però non suffragata da riscontri, poiché non esiste per tutti i casi censiti una verifica circa il rapporto tra assassino e vittima. Uno studio in tal senso è stato comunque condotto dall’Università di Siena, e da esso emerge ciò che non t’aspetti. Ossia che dal 2006 ad oggi il tasso di omicidi da parte di uomini con cui le vittime avevano una relazione è rimasto grossomodo costante, al 62% circa. Nessun incremento, nessuna emergenza improvvisa.

Uno Stato deve punire la violenza, ma creare il panico è un esercizio demagogico e corrosivo nei confronti della società. Guardando la tv o sfogliando i giornali, qualche donna potrebbe aspettarsi più cazzotti che carezze dal proprio compagno. Ed esser portata, di conseguenza, a rifiutare un progetto di relazione stabile a vantaggio dell’individualismo. Ma è proprio foraggiando l’emancipazione del proprio ego dall’affetto di un fidanzato/coniuge che si creano le premesse per il dilagare delle violenze. Infatti, come spiega Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione avvocati matrimonialisti italiani, «nelle coppie l’80% degli omicidi avviene nelle fasi in cui la relazione sta finendo o quando è appena finita». Parole che smentiscono chi attribuisce la violenza sulle donne all’esistenza – ormai obsoleta, dicono – del rapporto di coppia duraturo e della famiglia. La causa è, al contrario, proprio la crisi del rapporto di coppia duraturo e della famiglia.

Sicché, il femminicidio si contrasta non estirpando ma irrobustendo mediante politiche mirate l’istituto familiare, perno della società. È agli antichi modelli culturali che bisogna attingere per ripristinare un rapporto equilibrato tra i due sessi. La famiglia tradizionale è dunque un rimedio e un’avanguardia. Da tutelare e da promuovere.

(continua)

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