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Angola, la ricchezza resta sempre nelle mani di pochi

Dopo la partenza dei Portoghesi, nel ’75, l’Angola è stata insanguinata da una lunghissima guerra civile fra l’Mpla, che era al governo, è l’Unita di Jonas Savimbi; solo la morte di quest’ultimo, nel 2002, pose fine a un massacro che era costato oltre un milione di vite ed infinite distruzioni.

Con la fine della guerra, ingenti investimenti di Cina, Brasile, Portogallo e Spagna, sono affluiti nel Paese, destinati soprattutto allo sfruttamento delle ingenti risorse petrolifere e delle infrastrutture necessarie; la ricchezza crebbe vertiginosamente, di pari passo con l’aumento del greggio estratto, che passò dagli 800mila barili di allora agli attuali 1.800mila, facendo dell’Angola il secondo produttore africano dopo la Nigeria. Ad oggi, dei 130 Mld di dollari del Pil, oltre 60 provengono dal petrolio, ed esso garantisce circa il 95% dell’export complessivo del Paese.

Con quei proventi, e con l’afflusso di capitali dall’estero, soprattutto dalla Cina, sono stati avviati numerosi progetti ambiziosi: una ferrovia per assicurare lo sbocco al mare alle ricchezze del Katanga e della travagliata Regione dei Grandi Laghi; un nuovo porto a Lobito, che possa fare da terminal per merci e materiali non solo del Paese ma per tutta quella Regione, e molte altre infrastrutture. Ma tutto questo è condizionato alle quotazioni del greggio, in una dipendenza pericolosa; nel 2008, quando ci fu una frenata delle quotazioni all’inizio della crisi mondiale, tutta l’economia dell’Angola ne risentì, e i progetti di sviluppo si bloccarono. Adesso, con quotazioni precipitate assai più in basso, la scossa sull’ancora fragile società angolana sarà assai più forte, con riflessi sia politici che sociali.

A Luanda, l’Mpla è ininterrottamente al governo dal 1975: i tempi eroici della lotta contro i colonialisti e poi della guerra civile sono lontani, e quegli ideali hanno da tempo ceduto il passo a corruzione, paternalismo e nepotismo di chi occupa il potere da sempre, e usa i vecchi slogan ormai logori come copertura. Nel frattempo, lo sviluppo economico e sociale ha creato una nuova classe media, sostenuta da giovani generazioni venute dopo la guerra, che vuole dare una svolta al Paese: è un conflitto generazionale assai diffuso in Africa, soprattutto nelle tante Nazioni che hanno conosciuto le lotte di liberazione dal colonialismo. Le vecchie leve, una volta raggiunto il governo, s’arroccano attorno al potere creando un sistema di dominio che non intendono spartire, mentre giovani e classi medie che cominciano a svilupparsi chiedono riforme, democrazia, cambiamento e controlli sugli ingenti investimenti che affluiscono dall’estero per lo sfruttamento delle risorse nazionali.

Nel caso dell’Angola, è soprattutto il petrolio a fare gola: entro il 2016, la produzione dovrebbe superare i 2 milioni di barili, e questo, nelle previsioni del governo, dovrebbe dare le risorse per gli ambiziosi progetti di sviluppo; dovrebbe, perché con la crisi attuale e la sovrabbondanza di petrolio sui mercati, e la conseguente drastica riduzione dei prezzi, l’export va a picco. Al momento, solo la Cina, che dispone di capitali immensi e ragiona sulla base di programmi strategici di lungo periodo, non solo ha mantenuto gli acquisti (il 46% dell’intera produzione), ma continua ad investire in infrastrutture strategiche nel Paese e nell’intera area, che gli garantiranno di sfruttare a discrezione le immense risorse del Continente africano. 

Le tensioni che montano nella società angolana e gli squilibri che la gestione del potere delle vecchie leve continuano ad accentuare, scuotono il Paese che trova nel presidente Dos Santos l’unico elemento di riferimento e coesione. Al potere ininterrottamente dal 1979, dopo la morte del carismatico Agostinho Neto, primo Presidente dell’Angola, è stato l’elemento di continuità che ha tenuto unito la Nazione negli anni durissimi della guerra civile. Ora, lasciatosi alle spalle quel periodo, e con in mano le risorse di un’economia che fino agli anni scorsi è cresciuta impetuosamente, Dos Santos ha messo mano ad una agenda che vorrebbe fare di Luanda la potenza regionale, alternativa a una Nigeria sempre più alla deriva, stretta fra un terrorismo che la dilania sempre più e una corruzione a tutti i livelli e assolutamente fuori controllo.

In questa ottica, accanto a una serie di progetti infrastrutturali con i Paesi della Regione dei Grandi Laghi, ed altri per lo sviluppo dell’Angola, ha intrapreso un rafforzamento senza precedenti dello strumento militare: +174% delle spese dal 2004, già oggi largamente superiori a quelle del Sud Africa e, nei programmi, in crescita verticale per il futuro. Con la partnership di Brasile, Spagna e Russia (di cui è divenuto primo acquirente d’armamenti africano), intende costruire uno strumento che gli garantisca la leadership nell’Africa Sub Sahariana.

Tuttavia sono molti, forse troppi, gli ostacoli a questo programma ambizioso: le tensioni sociali che montano fra la popolazione per la corruzione e la gestione nepotistica del potere; la voglia di cambiamento chiesta a gran voce dalle nuove generazioni; la questione irrisolta dell’enclave di Cabinda, un piccolo territorio separato dal resto del Paese, ricchissimo di petrolio e in cui monta la voglia di separatismo. Ma questo, al momento, è il meno: l’Angola sconta una ricchezza basata essenzialmente sul petrolio e legata alle oscillazioni delle sue quotazioni su cui nulla può.                 

È la maledizione di molti, troppi, Paesi che, usciti dal servaggio del colonialismo, sono dominati da una classe dirigente corrotta che bada solo a mantenere il potere ed arricchirsi, senza un progetto che ridistribuisca le proprie tante ricchezze perché tutta la Nazione progredisca. Su questo s’innesta il neocolonialismo degli imperialismi che sfruttano alla grande la situazione, per ingrassare sulla pelle dei Popoli che continuano ad essere oppressi.   

di Salvo Ardizzone 

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