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Myanmar, continuano le violenze contro i Rohingya

Escalation di violenza nello Stato di Rakhine a maggioranza musulmana, dove almeno 26 persone in fuga sono state uccise in violenti attacchi da parte delle forze di sicurezza del Myanmar,  condannate più volte per la brutalità e gli abusi durante i conflitti con la minoranza etnica dei Rohingya. La violenza si è scatenata in risposta a presunti attacchi di ignoti contro la polizia. Gli attacchi sono iniziati domenica scorsa, quando circa novanta assalitori hanno preso d’assalto un ufficio di polizia nel villaggio di Kyiganbyin, Maungdaw Township. Gli aggressori hanno ucciso sei agenti di polizia, ferito altri due e sequestrato 51 armi e più di 10mila munizioni durante l’attacco, come ha riferito il capo della polizia nazionale Zaw Win.

In un attacco simultaneo ad un posto di polizia di frontiera nel villaggio di Kyeedangauk, Rathidaung Township, è rimasto ucciso un agente di polizia e feriti altri due. Un terzo incidente ha avuto luogo in Buthidaung Township alle 4:30 del mattino, lasciando altri due poliziotti morti e sette aggressori uccisi nello scontro.

Mentre l’identità degli aggressori non è ancora nota, alcuni funzionari sono stati rapidi nell’accusare i musulmani Rohingya, mentre altri hanno puntato il dito contro i gruppi del Bangladesh.

Gli scontri hanno sollevato lo spettro di una ripetizione dei disordine del 2012, quando estremisti buddisti hanno ucciso decine di musulmani e dato alle fiamme le loro proprietà nello Stato di Rakhine, costringendo decine di migliaia di persone a fuggire dalle loro case.

Rakhine è la patria di circa 1,1 milioni di membri del gruppo etnico musulmano dei Rohingya, alla maggior parte dei quali è negata la cittadinanza ed i cui movimenti sono sottoposti a severe restrizioni.

Martedi scorso, quando l’esercito ha inviato truppe nello Stato di Rakhine, l’Onu ha sollecitato le autorità del Myanmar ad astenersi da scontri violenti che potrebbero mettere in pericolo la vita della popolazione civile, mentre il gruppo Fortify Rights ha ricevuto segnalazioni di esecuzioni sommarie nella zona ed invitava il governo a “proteggere i civili indipendentemente dall’etnia o dalla religione”, considerato il fatto che i Rohingya ed altri musulmani per molti anni hanno affrontato in Myanmar torture e subito repressioni.

Quando nel 1991 il Premio Nobel per la pace fu assegnato ad Aung San Suu Kyi, allora agli arresti domiciliari, elogiando la sua “lotta non violenta per la democrazia ed i diritti umani”, molti apprezzarono il suo desiderio di “conciliazione tra le regioni fortemente divise e i  gruppi etnici nel suo Paese”.

Quando 15 anni dopo è stata portata al potere come leader democratico de facto del Myanmar, dove detiene ufficialmente i titoli di consigliere di Stato e ministro degli Esteri, il suo status sia come Premio Nobel, sia come ex prigioniero politico è immediatamente oscurato se si considera la condizione dei Rohingya.

I suoi mesi di silenzio sul tema hanno irritato i sostenitori dei diritti umani, come pure il suo rifiutare addirittura il termine Rohingya perché controverso e da evitare in quanto non riconosciuto tra i 135 gruppi etnici ufficiali. I sostenitori di Aung San Suu Kyi, tra cui il Dalai Lama avevano sperato che avrebbe difeso l’apolide Rohingya dopo la grande vittoria del suo partito nelle elezioni dello scorso novembre. Ma questa nuova richiesta diplomatica che suggerisce la fine della crisi è forse ancora più lontano del previsto.

di Cristina Amoroso

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