L’Ucraina abbandonata e tradita nel pantano di sangue di Debaltsevo
Dopo settimane di combattimenti sanguinosi, alle 6 del mattino di mercoledì 18, l’Esercito di Kiev ha diramato l’ordine di ritirata dalla città strategica di Debaltsevo verso Artemivsk, 40 chilometri più a ovest. È stato lo stesso presidente Poroshenko ad annunciarlo poche ore dopo, dicendo che quasi tutte le truppe avevano già lasciato la città e gli ultimi reparti stavano per farlo.
Secondo fonti dei separatisti, ribadite da Eduard Basurin, ministro della Difesa dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk, il ritiro delle truppe sarebbe avvenuto attraverso un corridoio lasciato libero dai filo-russi.
Le affermazioni di Poroshenko, che parlava di ripiegamento con tutte le armi e i materiali, suonano patetiche alla prova dei fatti: affamati, stressati e da tempo privi di rifornimenti, molti feriti, la gran parte dei soldati di Kiev hanno aderito all’offerta dei separatisti, abbandonando la zona dopo essersi arresi ed aver consegnato le armi; altri, alla notizia della ritirata, sono semplicemente fuggiti a piedi attraverso i campi, in una lunga corsa verso Artemivsk. Nel frattempo, i filo-russi hanno annunciato l’inizio del ritiro delle armi pesanti dalle aree più tranquille del fronte.
Per Kiev si tratta di una sconfitta devastante: nella sacca attorno alla città erano concentrati dagli 8mila ai 10mila uomini appartenenti alle unità migliori dell’Esercito e della Guardia Nazionale, con gli equipaggiamenti più efficienti fra quanto disponibile. L’abbandono della gran parte di essi, unitamente alle perdite pesantissime avute nella lunga battaglia (magari inferiori alla stima di 3mila morti diramata da fonti separatiste, ma comunque altissime, a cui si aggiunge un numero assai più alto di feriti), costituiscono un colpo durissimo, definitivo, per le Forze Armate ucraine e per le velleità di cercare una soluzione sul campo da parte di Kiev, e di quanti ne hanno sostenuto più o meno sottobanco il revanscismo.
Poroshenko e il suo Governo, in questa sporca vicenda sono stati usati con il più spudorato cinismo: prima sono stati spinti sulla via del confronto militare con le più ampie promesse di aiuti e appoggi, poi, quando Putin ha rotto gli indugi e deciso di vedere le carte, sono stati semplicemente abbandonati da chi non ha mai pensato di scatenare una guerra per l’Ucraina.
Per Washington occorreva che tuonassero i cannoni per tornare a dare un ruolo alla Nato e giustificare una contrapposizione con il rinato “nemico ad Est”; occorreva che il sangue fosse versato per spingere alla rottura i rapporti fra Europa e Russia e motivare le sanzioni e la guerra economica contro Mosca.
Ottenuto il risultato, grazie all’irresponsabile ingenuità di Kiev, adesso l’Ucraina può essere lasciata al suo destino e ai suoi oligarchi; a tenere alta la tensione basteranno le isteriche paure di Paesi Baltici e Polonia che, dopo aver agitato tanto il revanscismo contro la Russia, facendo di tutto per esasperare la crisi, adesso chiedono d’essere protetti da una Nato ben felice di farne dei satelliti di Washington.
La sceneggiata è già cominciata con le dichiarazioni del ministro della Difesa britannico Michael Fallon, che ha detto che Putin rappresenta per l’Europa una minaccia diretta come l’Isil e che bisogna essere pronti per entrambe; poco prima aveva affermato che esiste il pericolo reale che la Russia usi la stessa tattica aggressiva adoperata in Ucraina per destabilizzare Estonia, Lettonia e Lituania. Dichiarazioni incredibili nell’ambito diplomatico, ma funzionali a identificare la nuova area di crisi su cui focalizzare la Nato.
Nel frattempo, giovedì 19, Putin, Merkel, Hollande e Poroshenko si sono riuniti in una conference call, concordando sulla necessità di applicare gli accordi di Minsk nella loro interezza; come dire: al di là di generiche accuse di circostanza per la violazione degli accordi (che nella realtà non sono stati violati perché, come ha detto Putin durante la sua visita in Ungheria, di Debaltsevo non s’era affatto parlato a Minsk, proprio per non far saltare il tavolo fin dall’inizio) ciò che è fatto è fatto, da ora in poi si può parlare di pace.
Poroshenko ha compreso d’essere stato usato e di non potersi aspettare alcun aiuto, per questo ha nella sostanza dichiarato la sua completa sconfitta invocando i caschi blu dell’Onu a garanzia degli accordi di Minsk, appello immediatamente bocciato dai separatisti e da Mosca secondo i quali ne violerebbe lo spirito, e di cui non s’è nemmeno discusso nella conference call.
Con questa scriteriata avventura, costata diverse migliaia di morti, la distruzione di vasta parte di un Paese e la crisi difficilmente reversibile del resto, Washington ha centrato in pieno i suoi obiettivi grazie alla sudditanza mostrata da tutta Europa nell’accodarsi ai suoi interessi contro i propri e all’irresponsabilità di alcuni Paesi che si sono fatti strumentalizzare totalmente, seguendo i propri istinti più ottusi invece che i propri interessi nazionali (Ucraina in testa e poi Paesi Baltici, Polonia e gli altri della cosiddetta Nuova Europa).
Occorrerà molto tempo, semmai sarà possibile, per ricucire quanto era stato pazientemente tessuto in termini di sinergie fra i Paesi europei e la Russia. Nel frattempo lo Zio Sam ringrazia e continua a regnare.