Ordine mondiale e i suoi nuovi “nemici”
L’Ordine mondiale. Il fatto è che, con buona pace di tanti blogger affascinati dalle varie “primavere” su cui hanno proiettato le proprie convinzioni, quelle sono state solo “vetrine” che i media, per convenienza o per incapacità di comprensione, hanno innalzato a realtà. Le dinamiche vere, le motivazioni profonde di quei fatti, piaccia o no, sono state e sono tutt’altra cosa, impossibile da cogliere da chi, con una notevole dose d’arroganza, s’ostina a giudicare società e culture sideralmente diverse con i propri schemi.
Sappiamo di dire cose sgradite a molti, certo scomode, ma laggiù non sono in gioco la democrazia, la ricostruzione di Paesi distrutti (in alcuni casi, come in Libia, la costruzione da zero), lo sviluppo di società, ma semplicemente il predominio sull’intera area di due visioni del potere e della religione (che nel mondo islamico in molti punti coincidono).
L’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo suoi scudieri, rivendicano una posizione egemone sul mondo arabo, volendo imporre la propria ottica wahabita, dogmatica, assolutista e ultra conservatrice, che si specchia fedelmente nel sistema politico che basa su quei principi la propria legittimazione. E sia chiaro, è proprio questo il nocciolo della questione, un tale sistema è fatto apposta per perpetuare gli immensi privilegi di famiglie che gestiscono potere assoluto e ricchezze enormi come cose proprie. In poche parole, per loro, proteggere il wahabismo è proteggere gli immensi profitti del petrolio che finiscono dritti nelle loro tasche. In questa prospettiva, quella che considerano l’eresia sciita da un canto, come pure il pluralismo politico accettato dalla Fratellanza Musulmana, rappresentano una minaccia intollerabile ai propri interessi, alla sopravvivenza dei propri incredibili privilegi.
Gli Usa (ma sarebbe più corretto dire i centri di potere e le lobby che spadroneggiano sull’Amministrazione statunitense dettandole l’agenda), storicamente hanno considerato l’area del Golfo in generale, ed il legame con Arabia ed Emirati in particolare, strategica per le enormi riserve di idrocarburi che vi sono racchiuse. All’epoca della sciagurata presidenza Bush, la coincidenza d’interessi saldò un patto scellerato che diede il via alla destabilizzazione di un’area enorme, allo scopo di soggiogarla stroncando ogni possibile minaccia.
Il tema è necessariamente complesso, intrecciato com’è con tanti altri fattori locali e con i due filoni principali che sono quelli della lotta ai potentati locali e soprattutto alla Fratellanza Musulmana e alla sua visione della religione e della politica inconciliabile con il wahabismo da un canto, e guerra senza quartiere agli sciiti e all’Iran che ne è il campione dall’altro; qui seguiremo il primo di questi argomenti, rinviando il secondo a un prossimo articolo.
L’11 settembre fu la scintilla che giustificò l’inizio dell’azione, un po’ come le pistolettate di Sarajevo; cominciò l’invasione dell’Afghanistan, poi l’attacco all’Iraq (per eliminare la minaccia diretta di Saddam alle Monarchie del Golfo e controllare quelle riserve di greggio). Col tempo all’Amministrazione Bush, completamente organica all’operazione, succedette quella Obama, ma l’influenza dei centri di potere che avevano determinato fino ad allora la politica americana in funzione dei propri immensi interessi rimase enorme. Così, con un’Amministrazione Usa più riluttante e indecisa, ma pur sempre alle spalle, venne il momento delle varie “primavere”, con l’eliminazione di dittatori e “uomini forti” che ostacolavano le mire wahabite e dei loro “soci”: fu il turno di Tunisia, Libia, Egitto e Siria.
Il copione rimaneva più o meno lo stesso, sia pur adattato a situazioni spesso assai diverse: si soffiava sul malcontento delle popolazioni (che il più delle volte avevano anche troppi motivi per essere scontente), si suscitavano disordini che venivano fatti degenerare e con la forza del denaro, comprando agitatori, politici o militari, si indirizzavano quelle “rivolte”.
Ma questo è solo lo schema base, nella realtà le cose si sono rivelate assai più complesse e spesso con molti più attori coinvolti; è il caso della Libia, dove Francia e Inghilterra scesero in campo bandiere al vento, tirandosi dietro una Nato assai riluttante (e gli Usa ancor di più), per abbattere un regime che aveva legami troppo “stretti” (anche se imbarazzanti) con l’Italia e con l’Eni, e sostituirsi ad esse. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: uno Stato fallito, preda di milizie e di predoni, dove un vecchio generale amico della Cia, Khalifa Belqasim Haftar, viene tirato fuori per combattere un simulacro di Stato influenzato dalla Fratellanza Musulmana, e gruppi jihadisti fuori dal controllo diretto di chi tira le fila giù nel Golfo.
In Egitto è stato assai più chiaro: Mubarak venne scalzato, ma lì la Fratellanza Musulmana aveva basi antiche e prese il potere con le elezioni (anche con l’aiuto di un Qatar che s’era dissociato clamorosamente dalla linea saudita), mandando Mohamed Morsi alla presidenza; non fu difficile fargli terra bruciata attorno (grazie anche ai suoi errori madornali), e propiziare l’avvento del generale Al-Sisi, che ha stroncato i Fratelli Musulmani riempiendo cimiteri e carceri dei suoi militanti, e messo il Paese sotto una cappa di ferro, accettata da un popolo rassegnato e stanco di disordini e violenze. Per capirci, il nuovo Presidente ha dichiarato che occorreranno 25 anni per tornare alla democrazia (!); nel frattempo, Riyadh manda petrolio e miliardi di dollari per tenere in piedi la sua dittatura.
Ma è in Siria che si gioca la partita più importante e sanguinosa, con l’attacco al governo di Assad, che è anche l’attacco al progetto sciita della creazione di un’ampia area di collaborazione e sviluppo; di questo parleremo a breve, qui ci resta da segnalare che l’attivismo destabilizzatore del Golfo è tutt’altro che esaurito. Da tempo ha nel mirino l’Algeria, che già ha conosciuto l’orrore della guerra civile del “decennio nero” (la lotta fra gli islamisti del Fis e le forze di sicurezza del “pouvoir”, il blocco di potere algerino). È quella stagione di sangue (oltre all’asfissiante controllo del regime) che ha “vaccinato” il popolo da avventure, ma la situazione è pur sempre fragile e il pericolo assai presente.
Inoltre, l’influenza del Golfo fluisce verso i tanti gruppi e gruppuscoli qaedisti che infestano il Sahel, contribuendo alla destabilizzazione di Stati debolissimi, spesso sulla soglia del fallimento, ma anche verso Boko Haram e Ansaru in Nigeria, altro obiettivo grosso della jihad.
Il motivo di tanto accanimento è assai più prosaico che religioso: ridurre quasi a zero le esportazioni di idrocarburi dalla Libia, destabilizzare la Nigeria, mirare all’Algeria (ostacolare la produzione irachena e opporsi tramite le sanzioni all’esportazione di quella iraniana sarà discorso a parte nel prossimo articolo), obbedisce al disegno di ridurre drasticamente la produzione petrolifera mondiale, contribuendo a tenerne la quotazione forzatamente alta, malgrado nel mondo si scoprano sempre nuovi giacimenti, a tutto guadagno delle casse del Golfo. In fondo il discorso si riduce a quello, alle montagne di dollari e ai privilegi d’un pugno di corrotti.
di Salvo Ardizzone