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Libano, campi palestinesi e incubo Coronavirus

Dalal Yassine, consulente politico di The Palestinian Policy Network di Al-Shabaka, ha scritto nel suo articolo pubblicato da Al-Jazeera l’11 aprile, che i rifugiati palestinesi e siriani in Libano hanno bisogno di test adeguati e assistenza sanitaria, non più restrizioni ai loro movimenti.

Mentre l’epidemia di coronavirus si diffondeva in tutto il mondo, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha raccomandato ai Paesi di adottare misure per contenere il virus. Ha sollecitato l’allontanamento fisico per limitare la diffusione del virus e ha incoraggiato una maggiore igiene personale e pubblica. In Libano, ciò ha fornito un’altra opportunità ai personaggi politici di colpire le comunità emarginate, in particolare i rifugiati palestinesi e siriani.

Nel corso di una conferenza stampa del 13 marzo, Samir Geagea, il leader del partito delle Forze libanesi, noto per i suoi crimini contro l’umanità, ha insinuato che i rifugiati palestinesi e siriani sarebbero causa della diffusione di Covid-19 in Libano. Geagea ha sostenuto che le comunità di rifugiati rappresentavano una minaccia alla salute pubblica. Nonostante le farneticanti affermazioni di Geagea, i primi casi Covid-19 in Libano non erano rifugiati palestinesi o siriani. Piuttosto, si sospetta che fossero cittadini libanesi che stavano tornando da altri Paesi e sacerdoti gesuiti che avevano viaggiato in Italia.

Mobilitazione generale in Libano

Il 15 marzo, il governo libanese ha annunciato la mobilitazione generale in tutto il Paese e le autorità locali hanno iniziato a coordinarsi con le forze di sicurezza per fermare i movimenti “non necessari” dai campi. In alcune aree, sono autorizzati a rimanere fuori dalle loro case per sole cinque ore. I palestinesi hanno dovuto affrontare restrizioni per decenni da parte delle autorità libanesi, così come i siriani negli ultimi anni. 

Restrizioni

Mettere più restrizioni sui rifugiati che sul resto della popolazione non fermerà la diffusione del virus, ma aumenterà la sofferenza di questi gruppi emarginati. Ciò di cui hanno bisogno sia le comunità libanesi che quelle dei rifugiati è un migliore accesso a test, assistenza sanitaria, acqua pulita, dispositivi di protezione individuale e prodotti igienici.

L’Unrwa, l’agenzia responsabile per i rifugiati palestinesi in Medio Oriente, ha recentemente annunciato che si coordinerà con il ministero della Salute libanese per fornire test e cure Covid-19 ai rifugiati palestinesi presso l’ospedale Rafik Hariri di Beirut. Allo stesso modo, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha affermato che contribuirà al costo di questi servizi per i rifugiati siriani.

Il 28 marzo, il ministro della Sanità libanese, Hamad Hassan, ha dichiarato che il Libano condividerà la responsabilità con le appropriate agenzie delle Nazioni Unite per l’assistenza sanitaria ai rifugiati. Tuttavia, non è chiaro se l’accesso ai servizi sarà su una base di uguaglianza o se ci sarà anche discriminazione nelle cure.

Il Libano ospita oltre 475mila rifugiati palestinesi, molti dei quali vivono nel Paese dei Cedri da quando sono stati espulsi o costretti a fuggire dalla Palestina nella Nakba del 1948. Più della metà vive in 12 campi profughi ufficialmente riconosciuti.

Diritti negati

Ai rifugiati palestinesi viene negato l’accesso ai servizi sanitari negli ospedali del governo libanese. Mentre, 28 strutture sanitarie gestite dall’Unrwa forniscono servizi sanitari primari. Le condizioni di salute croniche o gravi vengono trasferite negli ospedali gestiti dalla Mezzaluna rossa palestinese. L’Unrwa assiste i rifugiati palestinesi pagando una minima parte dei costi per l’assistenza specialistica negli ospedali libanesi privati. Questi sforzi, tuttavia, non hanno fornito cure adeguate ai rifugiati palestinesi e sono diminuiti ancora di più dopo che gli Stati Uniti hanno deciso di tagliare i finanziamenti per l’agenzia.

La situazione degli oltre 1,5 milioni di rifugiati siriani in Libano non è migliore. L’Unhcr è responsabile di garantire che i rifugiati siriani abbiano accesso ai servizi di assistenza sanitaria in Libano. Anche prima della pandemia di Covid-19, ci sono stati problemi persistenti di accesso e disponibilità oltre ai servizi di assistenza sanitaria di base.

In passato, il governo libanese ha sistematicamente escluso i rifugiati palestinesi e siriani dalle iniziative di sanità pubblica. Nel 2018, ad esempio, il ministero della Salute ha lanciato una campagna nazionale per la diagnosi precoce del carcinoma mammario volta a “solo donne libanesi”, ed ha escluso le donne straniere residenti in Libano, tra cui palestinesi e siriani.

Retorica razzista in Libano

Il ministero della Salute ha giustificato le esclusioni affermando che la campagna era diretta ai cittadini che pagavano le tasse. Tuttavia, i rifugiati palestinesi e siriani non sono esenti da tasse e pagano tutte le tasse necessarie per i servizi al Tesoro libanese.

Con la persistente retorica razzista proveniente da politici simili a Geagea, ora si teme che i rifugiati in Libano non saranno solo capri espiatori per l’incapacità del governo di far fronte a un focolaio, ma non avranno accesso a un’adeguata assistenza sanitaria quando il virus raggiungerà le loro comunità. Questa combinazione di retorica politica, nuove restrizioni di sicurezza e accesso incerto alle cure potrebbe servire a scoraggiare i rifugiati dal cercare cure e contribuire alla diffusione di Covid-19.

L’epidemia di coronavirus colpisce tutti e il virus non discrimina chi colpisce. Il razzismo e il capro espiatorio delle comunità vulnerabili non lo sconfiggeranno sicuramente. Se Covid-19 si diffonderà nei campi profughi in Libano, si tratterà di una catastrofe umanitaria, che non rimarrà limitata ai rifugiati palestinesi o siriani.

di Yahya Sorbello

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