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L’ingloriosa fine di Alitalia

di Salvo Ardizzone

Il trasporto aereo, e quello che gli ruota intorno, nel mondo d’oggi è uno dei settori più strategici: muove interessi enormi e supporta affari e relazioni, oltre che permettere quella mobilità che è alla base della società moderna.

Da decenni è finito il tempo delle singole società di bandiera: troppo grosso e articolato il business, troppo aggressive le società low cost per reggere l’urto. In Europa, uno dei mercati mondiali più interessanti, erano avvenuti scontri e rimescolamenti che avevano condotto alla nascita di tre soli poli che s’erano spartiti i cieli (o almeno così pensavano): Lufthansa con gli scudieri Swiss e Austrian; Air France e Klm, alle prese con una pesante ristrutturazione per non crollare; British Airways, che con Iberia aveva trovato un certo equilibrio. Per il resto deserto, con la solita eccezione all’italiana: Alitalia, l’eterna malata, o meglio, l’eterno pasticcio che ha fatto bruciare al Sistema Italia somme enormi senza mai affrontare le ragioni d’una crisi.

Sarebbe lungo (anche se assai istruttivo) entrare nel merito degli infiniti errori, degli sprechi criminali, della stupefacente superficialità con cui negli anni (tanti) è stato trattato il problema; diciamo solo che, malgrado somme enormi, manager strapagati e roboanti dichiarazioni (memorabile quella berlusconiana sui “capitani coraggiosi”), la compagnia s’è trovata per l’ennesima volta sull’orlo del fallimento. Per semplificare brutalmente: costi fuori controllo, rotte “sbagliate” e flotta aerea inadeguata, che puntava essenzialmente a tratte “brevi” invece che a quelle “lunghe”, di cui un sistema manifatturiero vocato all’export, e la tradizione turistica italiana, aveva e ha assolutamente bisogno.

Le altre compagnie europee erano felici d’una simile crisi, pensando d’acquistare a “babbo morto” un’azienda fallita, e d’impadronirsi a costo zero non solo d’un grande bacino d’utenza (malgrado tutto, turismo e impresa in Italia vivono ancora), ma di quello che è l’indiscusso patrimonio Alitalia: centinaia di ottimi piloti che mancano troppo spesso altrove. Di qui il sostanziale disimpegno di Air France (che invero, di guai suoi ne ha a iosa), in Alitalia già al 25%.

Ma il mondo non è più a scompartimenti, e l’Europa, da molto tempo, non ne è più il centro, così, ecco spuntar fuori l’Etihad. È una compagnia di Abu Dhabi, fondata solo 10 anni fa, ma che ha già 17mila dipendenti, 7 mld di $ di fatturato e soprattutto la forza di capitali immensi.

In realtà, lei in Europa è già di casa; ha costruito una rete d’alleanze (ma visto che tiene i cordoni della borsa, diremmo di potere) enorme; badando a non superare il 49%, per far mantenere le caratteristiche di vettore europeo alle compagnie che sostanzialmente controlla, ha già il 29% di Air Berlin (il secondo vettore tedesco, ed è in procinto di salire al 49%), il 49% di Air Serbia e il 33,3% della svizzera Darwin Airlines, rinominata Etihad Regional; inoltre detiene il 40% di Air Seychelles, il 19,9% Virgin Australia, il 3% di Air Lingus e il 24% dell’indiana Jet Airwais.

Ora, vista l’occasione che l’ottusa arroganza delle altre compagnie europee le ha regalato, ha deciso di prendere il controllo di Alitalia. Il piano, che è in corso di formalizzazione, e ha avuto la definitiva benedizione del premier Renzi nell’incontro dell’11 aprile scorso con James Hogan, ceo di Etihad, prevede un’iniezione di 500 ml di capitale e la ristrutturazione del debito con le banche: di circa 1 mld, almeno 400 saranno commutati in aumento di capitale o consolidati. Gli istituti di credito, potendo finalmente trattare con un interlocutore solido e credibile, non si son fatte pregare dando la massima disponibilità, e, malgrado i dettagli siano ancora da definire, non ci sono dubbi sul buon esito della trattativa.

Resta il problema degli esuberi: per troppo tempo Alitalia è stata il solito carrozzone, usata in maniera cinica e irresponsabile per collocare gente; sono in 3mila a rischiare il posto. L’ipotesi è di mantenere in Cig (Cassa Integrazione Guadagni) a zero ore il personale di terra, riservando la Cig a rotazione solo al personale viaggiante (la parte più preziosa, che potrebbe essere dirottata presso gli altri vettori di Etihad). L’ennesima porcata del management e dei politicanti di riferimento, che ricade su migliaia di famiglie. Ma tant’è.

La strategia del Gruppo è chiara: sull’Hub di Roma si concentreranno i collegamenti con il Nord e il Sud America, rafforzati dal flusso in transito da Abu Dhabi; da Linate ci sarà finalmente un collegamento strategico con Shanghai e da Malpensa una navetta per gli Emirati, da cui i passeggeri continueranno i voli per l’Oriente. Finiti i sogni di politici e industrialotti, per quest’aeroporto resta il ruolo di Hub cargo, a cui Etihad è estremamente interessata.

In questo modo, le compagnie europee scontano la loro miopia: Lufthansa, dopo essere insidiata in casa da Air Berlin, viene scalzata dall’Italia, suo secondo mercato e Air France si vede chiudere le strade per l’Oriente. E il sistema Italia?  Ha costruito il suo ennesimo capolavoro: sotto la spinta delle idiozie leghiste, ha speso cifre folli per inseguire il sogno del 2° Hub italiano a Malpensa, insostenibile mantenendo anche l’altro aeroporto di Linate, ritenuto indispensabile alle comodità della Milano produttiva. Finché lo stato (cioè tutti noi) s’è sobbarcato alle perdite è andata, ma ora? Ora c’è da guardare in faccia la realtà che se ne infischia dei sogni; e questo vale anche per Alitalia. Grazie classe dirigente italiana.

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