Le radici contorte dell’Unione Europea: erronee aspettative
Quando venne sera, spiegammo loro come sarebbe stata risolta la questione dell’acqua. Ci limitammo a dire che, per i prossimi cinquant’anni, l’acqua destinata a Fontamara sarebbe stata pari ai tre quarti del quarto non deviato verso le terre dell’Impresario. Poi però fummo costretti a correggerci, dato che la dicitura in termini annuali era parsa così sgradevole a quei cafoni, che subito iniziarono a protestare e a implorare con disgustoso baccano e ci attestammo su un testo che, nella sua forma definitiva, stabiliva che il dominio dell’Impresario su dette acque sarebbe durato solo dieci lustri. I dieci lustri parvero loro più adeguati, più congrui, insomma più giusti. A volte basta saper scegliere le parole…
Quando iniziarono a spiegarci che una lunga crisi si sarebbe abbattuta sulla nostra Europa, ci trattarono un po’ come i protagonisti del capolavoro di Silone.
In principio ci fu l’opera di persuasione: occorreva convincerci della bontà e della necessità di quella fratellanza di popoli chiamata Unione Europea. Ci riuscirono facilmente, perché la promessa di pace e prosperità per tutti i figli del Vecchio Continente, fu sufficiente ad abbandonare tutti gli antichi dissapori e tutti quei mal sopiti contrasti che, nell’arco di un solo secolo, avevano visto i Paesi europei schierati sui due fronti opposti in entrambi i conflitti mondiali. Una bandierina blu con tante stelline dorate, una per ogni Paese membro, manco fosse una cosa tanto originale, ed ecco che l’illusione di creare i nostri Stati Uniti d’Europa pareva a portata di mano.
Ma poi, senza aver avuto il benché minimo assaggio di quella terra promessa, venne subito il tempo del timore e del tremore. Tutto per colpa di una bolla speculativa scoppiata tra le mani dei cugini a stelle e strisce, così ci fu detto. In breve tempo, proprio all’indomani dall’ingresso in corso legale della nostra moneta unica, guarda un po’ che coincidenza, ecco che tutto il sistema che reggeva il mondo, quello che solo allora capimmo essere il sistema finanziario, rischiava di franare rovinosamente al suolo.
Non ci fu un solo attimo da perdere e tutte le motivazioni che ci avevano portato a stringere la cinghia per rientrare in spietati quanto profondamente insensati parametri, di Maastricht o Berlino poco conta, furono accantonate. Una stagione coniugata al tempo presente-urgente aveva fatto il suo ingresso in scena, iniziando a imporre e a reclamare nuovi sacrifici, nuove rinunce e finendo per traghettarci nell’impietosa e criminale austerità, che ancora ruggente perdura.
A questo punto sarebbe auspicabile fermarci un momento a ragionare. Trovare le risposte a domande che non abbiamo saputo porre o che semplicemente ci sono inciampate tra i denti, mentre noi non abbiamo avuto il coraggio di aiutarle a rialzarsi, perché potessero essere ascoltate, evitando di rimanere disattese.
Come accade, per esempio, che il volere di pochi diventa universale, globale, fino ad affermarsi come pensiero unico? Come si può ottenere che milioni di persone che pagheranno care determinate scelte, siano le più convinte sostenitrici della necessità di adottare quelle stesse scelte, nonostante da esse dipendano la loro futura precarietà e in definitiva la loro futura prigionia?
Prima di addentrarci in un viaggio tra le radici contorte dell’Unione Europea, occorre individuare il paradigma che ha fatto da modello per la costruzione di tutta l’enorme gabbia che ora ci imprigiona. Pare infatti che nulla si possa decidere, attuare o solo ipotizzare, se prima non ha incontrato il benestare di chi comanda a livello sovranazionale, di chi ha in mano le chiavi d’Europa ed oggi la regge senza rendere conto a nessuno.
Certo ci potranno contestare che la situazione odierna era ben nota a tutti e deriva dall’accettazione di un florilegio di trattati e accodi, sottoscritti dai Governi di tutti gli Stati membri. Non mancheranno di eccepire come sia una regola di democrazia affidare il proprio futuro al volere della maggioranza e che quando questa si esprime, ogni decisione presa è legittima e deve essere da tutti accettata.
A ben vedere, però, c’è qualcosa che da subito non torna nel complesso groviglio di istituzioni europee sorte come funghi un po’ in tutti i settori. E’ ben strutturato e complesso, infatti, il reticolo di istituzioni europee non elettive che giocano un ruolo importantissimo nell’adozione di decisioni, anche normative e regolamentari, capaci di incidere profondamente nella nostra quotidianità senza dover rendere conto ad altri se non a se stesse. E’ talmente ben strutturato che si impiegherebbe molto meno tempo a fare l’elenco di quelle direttamente elette dai cittadini: il Parlamento Europeo.
Esatto, tra i capricciosi ingranaggi della mastodontica macchina Ue, uno solo è elettivo. Tutti gli altri, semplicemente no. Ma prima di fare confusione è opportuno precisare che cosa intendiamo con questo termine. Con organi elettivi facciamo riferimento esclusivamente a quelle autorità che, non solo sono elette direttamente dai membri delle comunità su cui esse esercitano un comando, ma anche che vengono elette per un periodo piuttosto breve e rinnovabile e il cui rinnovo dipende da una nuova elezione da parte del corpo elettorale. In questo senso si afferma che tali autorità sono politicamente responsabili dinanzi al popolo, poiché se non svolgono il mandato con impegno o non conseguono i risultati sperati, rischiano di non essere riconfermate.
Altra cosa sono tutti quegli organi la cui legittimazione è custodita in trattati costitutivi o altri strumenti normativi e che non sono sottoposte a valutazione alcuna da parte del corpo elettorale.
Facciamo qualche nome? Commissione europea, Consiglio d’Europa, Banca europea per gli investimenti, Banca Centrale Europea, ma anche Autorità europea per la sicurezza alimentare, Autorità europea per la sicurezza nell’aviazione, Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali, Agenzia europea del farmaco, Agenzia europea dell’ambiente, Agenzia europea delle sostanze chimiche, Ufficio europeo per l’armonizzazione del mercato interno, e un sacco di altre Autorità, Agenzie e Uffici di cui la maggior parte dei cittadini ignora l’esistenza.
Eppure se si vuole registrare un marchio, occorre rivolgersi all’ufficio europeo per l’armonizzazione del mercato interno, la commercializzazione di un farmaco dipende dal parere dell’agenzia europea del farmaco, quella dei generi alimentari dalle valutazioni dell’autorità europea per la sicurezza alimentare, e così via. Certo, colpa nostra che non ci siamo mai interessati a questo florilegio di operosi burocrati, ma va anche detto che non ci hanno reso le cose facili. Anzi proprio questa vocazione a complicare ogni cosa, rendendo tutto volutamente incomprensibile, pare essere un altro solido paradigma in uso in questa Unione Europea.
Restare incompresi, fomentare il fraintendimento, distrarre energie per non farsi capire è una scelta ben precisa, non un accadimento indesiderato. E’ da sempre questo un tratto caratteristico della burocrazia di ogni tempo. E come spesso capita anche in altri fragili castelli, solidamente difesi da un fossato di codici e codicilli intricatissimi, neanche l’euroburocrazia riesce ad autolegittimarsi da sola, nemmeno lei basta a se stessa. Molto prima che la crisi venisse tirata in ballo come argomento per giustificare la discrezionalità, la celerità e le enormi sperequazioni derivanti dalle decisioni prese in ambito comunitario, molto prima della bolla dei subprime, in Europa si andava progettando l’Unione come noi la conosciamo. E questo è un punto centrale.
Non è che le cose non hanno funzionato, che non sono andate come le si era pensate, tutt’altro. Questa è l’Europa auspicata dai suoi trattati costituivi, questo il Vecchio Continente come progettato da chi ha avuto a cuore prima di tutto il carbone e l’acciaio (il Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio del 18 aprile 1952) e solo dopo ha pensato alla fiaba dei popoli che si danno le mani in un amorevolmente giro tondo senza confini.
E’ proprio per questo che tutti gli organismi e gli istituti europei non sono elettivi, ad eccezione del già citato Parlamento Europeo, e non è un caso che il potere dell’unico organo rappresentativo della democrazia diretta abbia subito nel corso del tempo una compressione e una corrosione enorme, tanto nei suoi poteri quanto nelle sue attribuzioni.
Per questo c’è poco da stupirsi se oggi, diversamente da come dovrebbe essere, nell’Unione Europea i vari Stati membri sono in competizione gli uni con gli altri e non cercano una reale cooperazione per affrontare le turbolenze derivanti dai fracassi della finanza. E’ tutto un confrontare i dati degli Stati del Mediterraneo europeo con quelli dei più virtuosi stati del nord, mettendo tutti contro tutti in una gara che non solo non può risolvere alcun problema, ma rischia di creare molta più povertà di quanta ne possa sconfiggere.
Proprio per questo non c’è da stupirsi se alcuni Paesi dell’Ue hanno deciso, ben conoscendone i rischi, di inondare di liquidità le economie più deboli della Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, per poi recitare la parte delle vittime, pretendendo in ragione della loro infelice sorte di poter dettare le regole in casa dei loro debitori.
Proprio per questo, nonostante le numerose e sempre ben incravattate dichiarazioni della Banca Centrale Europea, la politica monetaria nell’Ue si fa giorno per giorno, senza un piano, senza poter prevedere come andranno le cose tra quattro o cinque anni.
Proprio per questo, infine, ci sembra necessario intraprendere un lungo viaggio tra le radici contorte dell’Unione Europea, per scoprire, tra le altre cose, che cosa sia realmente il debito sovrano, come si è affermato il predominio dei mercati finanziari sull’economia reale, che fine ha fatto la sovranità degli stati membri, per quale motivo la Bce non è capace di fare scelte coerenti con le funzioni che le sono state attribuite, cosa succede, inoltre, se qualcuno decide di chiamarsi fuori e abbandona la moneta unica
Il tutto senza la pretesa di essere esaustivi e definitivi, ma ben consapevoli della necessità di esporre le nostre riflessioni con la massima chiarezza, perché il limite del nostro linguaggio costituisce il limite del nostro mondo. Come la realtà europea che stiamo oggi vivendo drammaticamente ci conferma.