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Cina. Le minacce che arrivano dai mari d’Oriente

di Salvo Ardizzone

L’Estremo Oriente è lontano, ma sbagliamo a disinteressarcene, presi da vicende più vicine, perché è laggiù che si sposta il fulcro del pianeta; e proprio intorno a quei mari sempre più cruciali, la voglia d’egemonia del nuovo imperialismo cinese fa crescere tensioni sempre più pericolose. Ne abbiamo trattato qualche mese fa, ma è opportuno occuparcene ancora.

L’espansionismo cinese in quelle acque è ormai antico: sono passati quarant’anni da quando strappò il controllo delle isole Paracel all’allora Vietnam del Sud, nell’ultima battaglia navale combattuta unicamente coi cannoni. Quattordici anni dopo, nel 1988, fu il turno delle Spratley, e non ci fu l’alibi d’un governo filo americano, perché le tolse a un Vietnam da anni unificato da Hanoi.

Per Pechino non s’è trattato di episodi, ma l’applicazione d’una dottrina (che ha definito del “filo di perle”) che unisce insieme una strategia economica, politica e marittima, per la progressiva acquisizione e costituzione d’una serie di basi e punti d’appoggio lungo le rotte commerciali su cui corrono le sue materie prime, e per l’espansione della sua area d’interesse.

Per fare questo, la Plan (People’s Liberation Army Navy), che era orientata solo alla difesa costiera, dagli anni ’90, sostenuta da investimenti sempre più ingenti, s’è avviata a divenire una flotta d’altura, per proiettare il proprio Sea Power sulle Blue Waters (per inciso: oggi, dopo la consegna nel 2012 della Liaoning, la prima portaerei, ne sono state preventivate altre quattro per la costituzione di almeno tre gruppi aeronavali a emulazione di quelli americani).

Così, raffreddatesi (ma non più di tanto) le frizioni con il Vietnam, sono cominciate quelle con le Filippine, l’Indonesia, la Malaysia; quando le tensioni salgono troppo, vengono stipulati accordi che sanciscono, per via diplomatica, nuovi passi avanti nella strategia di Pechino.

Giacimenti offshore di idrocarburi, controllo delle linee commerciali fino all’Oceano Indiano, zone di pesca, la posta è sempre più alta, e da alcuni anni gli Usa hanno compreso che è contro i loro interesi dare campo libero, lasciando i singoli Paesi soli dinanzi al Dragone; così hanno aumentato massicciamente la presenza in zona, e ricominciato ad intrecciare alleanze come con l’Australia e le Filippine. Anche l’India s’è inserita nel gioco, perché non gradisce l’intromissione di Pechino nell’Oceano che porta il proprio nome, e manda navi in esercitazioni congiunte con Vietnam e Filippine.

Nel frattempo i punti d’attrito si moltiplicano, con la Cina a spingere sempre più avanti le sue pretese: per le isole Natuna (ancora più a sud ovest delle Spratley) e lungo lo stretto di Luzon con Indonesia e Taiwan; per lo scoglio di Socotra con la Corea del Sud; per le isole Dongsha con Taiwan. È tutto un incrociarsi di confini marittimi e di Zee (Zone Economiche Esclusive) di cui Pechino rivendica l’esclusivo sfruttamento.

Quelle elencate son tutte buone ragioni d’inquietudine, ma ora è altrove che le nubi s’addensano più scure. La strategia di Pechino sceglie i propri obiettivi confrontandosi con sfide sempre più pesanti col crescere della propria potenza economica e militare: ora ha deciso il bersaglio grosso, alzando il confronto con una potenza regionale, il Giappone, ma in realtà per prendere le misure agli Usa, per vedere fin dove sono disposti a spingersi nella loro politica di contenimento.

È sulle Senkaku (Diaoyu per la Cina) che monta la tensione: all’apparenza scogli senza valore a sud di Okinawa, giapponesi dal 1879, occupate durante la II^ Guerra Mondiale e restituite dagli Americani a Tokyo nel 1972. Taiwan le considera proprie, e Pechino di riflesso fa lo stesso. Sotto quel mare, peraltro assai ricco di pesce, pare che ci sia petrolio, e tanto; ma il confronto, che ormai cresce da anni, è dettato dalla strategia di sempre. Il fatto è che da quelle parti la “faccia” conta più di molte altre cose e, sventolando il vessillo del nazionalismo, sotto cui son sempre in troppi a correre ottusamente, nessuno è disposto a fare marcia indietro.

Di rilancio in rilancio, le cose si sono complicate, rischiando di privare i Governi di qualunque spazio di manovra (e la storia è piena di queste stupidità, culminate in tragedie colossali). Sotto gli occhi degli Usa sempre più preoccupati, Pechino a marzo ha annunciato un aumento del budget militare del 12,2%, e un ulteriore potenziamento di marina e aviazione, con spese ufficiali per 132 mld di $, che stime più realistiche portano a più di 150 contando quelle “coperte” per i progetti più “discreti”. A Tokyo, il Governo di Shinzo Abe, che pesta anche lui sul tasto del nazionalismo, ha risposto con un programma di 57 mld di $, previsti in crescita per i prossimi quattro anni. Anche la Corea del Sud, presa in mezzo, ha varato programmi di potenziamento della flotta, che non semplificano la situazione.

Nel frattempo Pechino, unilateralmente come al solito, il 26 novembre del 2013, ha creato una zona di identificazione e difesa aerea che si sovrappone alle Senkaku e alla roccia di Socotra. Da quel momento, in quei cieli è cominciato un gioco assurdo quanto pericoloso, con aerei cinesi, giapponesi, americani e anche sud coreani che si sfiorano per affermare il proprio diritto.

In condizioni simili, l’incidente è sempre in agguato, e non vorremmo pensare a cosa potrebbe accadere; è tutto per non “perdere la faccia”, il primo che mostra indecisione ha perso, con tutte le conseguenze geopolitiche che ciò comporta.

Potrebbe sembrare un ridicolo gioco di bambini, se non fosse terribilmente serio. È tragico che destini di popoli possano essere legati a questo. È tragico che il sorgere di imperialismi (in questo caso cinese) e i loro meccanismi portino sempre a questo.

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