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L’Aja sconfessa le pretese di Pechino sul Mar Cinese Meridionale

di Salvo Ardizzone

Martedì, la Corte permanente di Arbitrato dell’Aja sulla Legge del Mare ha emesso il suo verdetto, sconfessando tutte le pretese di Pechino sul Mar Cinese Meridionale. Secondo il giudizio, la Cina non ha diritti storici di sovranità su tutta l’area e le sue azioni hanno violato la legalità internazionale.

Il procedimento era stato avviato nel 2013 da Manila, minacciata dal crescente espansionismo cinese, che ora ha accolto con molta prudenza la sentenza. Pechino non ha voluto partecipare all’arbitrato ed ha continuato ad affermare che non riconosce alcun verdetto contrario alle sue rivendicazioni.

Successivamente alla pubblicazione dell’esito del procedimento, la Cina ha ribadito le ragioni storiche delle sue rivendicazioni, ma si è detta pronta a risolvere le dispute pacificamente con gli Stati interessati, usando una formula di una stupefacente ambiguità: “sulla base dei fatti storici”, che per Pechino equivale all’esclusiva sovranità sull’area, e “in accordo con il diritto internazionale”, che ha disconosciuto totalmente le sue pretese.

In ogni caso, la dirigenza cinese ha compreso di essere a un bivio: se continua con le sue mire espansionistiche, ora che la Corte dell’Aja (la cui giurisdizione sulla materia essa stessa ha riconosciuto nel 1996) le ha bocciate, regala un assist colossale a Washington, la sua principale rivale; se fa marcia indietro, innesca meccanismi interni potenzialmente dirompenti.

Per comprendere il motivo dell’azzardo cinese, occorre mettere in chiaro alcune cose: i cosiddetti diritti storici di sovranità sul 90% del Mar Cinese Meridionale (e sui circa 11 miliardi di barili di petrolio e migliaia di miliardi di metri cubi di gas che si stima siano sui suoi fondali) si basano su 9 tratti di penna tracciati su una carta con cui Chiang Kai-Shek, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dichiarò unilateralmente (fra il compatimento di personaggi come Stalin, Roosevelt e Churchill) la sua aspirazione di sovranità su quei mari. Praticamente su nulla.

Per molti anni, seguendo la dottrina di Deng Xiaoping, la Cina ha tenuto un profilo basso, espandendosi senza mostrare aggressività, caratterizzando il proprio imperialismo, e lo sfruttamento di Stati e popolazioni, con la crescente forza economica e commerciale. Negli ultimi anni, e soprattutto con l’avvento di Xi Jinping, la sua postura strategica è radicalmente mutata, passando ad un espansionismo più tradizionalmente imperialistico, ma senza definire chiaramente i propri obiettivi conseguenti.

Il Mar Cinese Meridionale è cruciale per gli interessi di Pechino, perché su di esso passano merci per 5mila Mld di dollari, e a tutt’oggi la gran parte di materie prime che alimentano l’economia cinese. È per lei un’area estremamente sensibile ed è per questo che non vuole su quelle acque l’Us Navy (tradizionale strumento del vecchio imperialismo con cui si confronta) e non vuole neanche che altri Paesi rivieraschi vi impiantino basi militari che possano impensierirla. Ma cosa vuole in definitiva è tutt’altro che definito e chiaro.

Una potenza come la Cina non può alternare confusamente atti chiaramente intimidatori a profferte di collaborazione, al di fuori di un progetto complessivo. Ma è quello che sta facendo.

Il risultato è di suscitare inquietudini in tutti gli Stati che la circondano, quegli stessi con cui Pechino avrebbe (e potrebbe tranquillamente riuscirci) tutto l’interesse a collaborare, inserendoli in una cornice economico-commerciale tale da abbracciare tutta l’Asia-Pacifico. Invece, il suo comportamento spinge d avvicinamenti ed alleanze inedite quanto innaturali (vedi il crescente ruolo riconosciuto a Tokio nell’area da chi ha storici motivi di inimicizia) e fa il gioco di Washington nel coalizzare tutti nel contenerla.

In realtà, a spingere la Cina su una strada di assertività imperiale è anche il quadro confuso al suo interno: Pechino si trova in mezzo al guado; il tentativo di normalizzare la sua economia, riducendone gli enormi squilibri, è solo agli inizi; la lotta contro la corruzione e le colossali imprese di Stato inefficienti, che è soprattutto lotta di potere contro i vecchi apparati, è tutt’altro che vinta e lo yuan è una moneta assai meno internazionale che un anno fa. In questa situazione Xi Jinping ha bisogno di un successo di immagine, trasmettendo il messaggio di una Cina potente, come vasta parte dell’apparato, ancorato alle vecchie rendite di potere ora insidiate, ha tutto l’interesse che fallisca per ridimensionarlo.

Ma la sfida fin qui mandata al mondo, e che la parte di mondo a lei vicina sta recependo (con gran soddisfazione degli Stati Uniti che possono atteggiarsi a protettori), è l’esatto contrario di ciò che serve a Pechino ed alla sua attuale dirigenza alle prese con sfide difficili. Una dirigenza consapevole d’essersi ficcata in una partita i cui costi sono ormai largamente superiori agli eventuali ricavi. Il problema è come uscirne salvando la “faccia”, cosa d’importanza esiziale da quelle parti.

Con tutta probabilità, pur senza rinnegare le proprie posizioni ufficiali (non può farlo), Pechino proverà ad intavolare trattative bilaterali con i singoli Stati rivieraschi del Mar Cinese, magari riconoscendo loro la possibilità di uno sfruttamento congiunto dell’area e rendendo allettanti le proprie proposte con massicci finanziamenti. Un modo per disinnescare la tensione e sgonfiare la crisi su cui punta Washington.

Comunque sia, e come già detto, con il pronunciamento della Corte dell’Aja la crisi che da tempo monta in Estremo Oriente è ad una svolta: se dovesse crescere ancora, le possibilità che esploda in modo incontrollato con esiti disastrosi diverrebbero altissime; ma in realtà, a nessuno conviene. Conviene piuttosto un accomodamento che, senza umiliare la Cina (non lo potrebbe accettare) ridimensioni le sue pretese (magari notevolmente, purché si salvi la forma), trovando un’intesa con i vicini.

Insomma, un braccio di ferro stavolta vinto nella sostanza dal vecchio imperialismo Usa sul nuovo imperialismo rampante di Pechino, che attenderà una nuova occasione per riprovarci. Funziona così, sulla pelle dei Popoli.

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