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La riforma del 2015 riuscirà a salvare una scuola italiana in agonia?

di Cristina Amoroso

Aspetterà di certo con curiosità l’attesa riforma sulla scuola promessa da Renzi chi ha avuto la fortuna di andarsene dalla scuola quando poteva mantenere ancora un po’ di rispetto per sé, in quanto il lavoro dell’insegnante non era stato reso al momento così degradante ed offensivo da un’estrema burocratizzazione con formalismi, dettagli organizzativi, riunioni defaticanti sul nulla…

Dopo il grande sciopero sulla scuola di ieri, nell’avvicinarsi dell’approvazione del ddl di riforma scuola 2015, il nostro pensiero va al percorso della scuola italiana e alle riforme che l’hanno resa “scuola del disagio” e “scuola in agonia”, come qualcuno la definisce.

Si era voluto modernizzare la scuola dopo anni di staticità con un processo che è partito dagli anni Sessanta, quando sotto la spinta del movimento studentesco, la vecchia impalcatura gentiliana venne incrinata con l’introduzione della scuola media unica e la liberalizzazione degli accessi all’università.

Si tolse poi il latino dalle scuole medie, si riformarono gli esami di maturità e in via sperimentale si adottarono in molte scuole i programmi Brocca, infine furono tolti gli esami di riparazione. Quindi si arrivò con le successive riforme ad estendere l’obbligo scolastico e, accelerando i processi, a introdurre nuove tecnologie e ridisegnare la struttura scolastica italiana. Poi altri passi come lo statuto degli studenti e il sacrificio della storia antica sull’altare della contemporaneità, o della storia dell’arte come espressione di tendenze culturali maggioritarie da tempo in tutte le forze politiche.

Di fatto le innovazioni sovrappostesi hanno mortificato la qualità degli insegnanti e degli alunni con riforme che hanno avuto come bandiere il didatticismo e l’autonomia.

Il primo sminuiva contenuti anche critici e valori culturali ed etici da trasmettere, focalizzando l’attenzione sulle tecniche di valutazione come se tutto fosse misurabile oggettivamente. L’altra bandiera, quella dell’autonomia, è andata via via riducendo la scuola ad un’azienda e gli studenti a clienti, traducendosi non in autonomia culturale, ma nella perdita d’identità istituzionale con i Pof (Piani dell’Offerta Formativa) e con l’introduzione della flessibilità corrispondente a criteri economici non educativi, (come si potesse valutare la scuola in termini di produttività e competitività non in termini di trasmissione della cultura).

La scuola si era gettata così sul mercato per gratificare clienti utenti, concorrere con le scuole private garantite dai buoni scuola secondo il migliore credo liberista. Competitività, linguaggi aziendali, addestramento alla flessibilità, test, prove Invalsi sono stati i geni inoculati in un corpo da tempo abbandonato e sofferente.

Il fine, secondo i riformatori della scuola dell’autonomia, era quello di rivitalizzare un corpo stanco con un profilo all’“altezza dei tempi”, come indicavano i modelli anglosassoni e soprattutto americani, frutto di un’ideologia vacua della globalizzazione, di miti della modernizzazione e del progressivismo a tutti i costi, che sono in realtà puro e semplice nichilismo, privo ormai di qualsiasi legame con l’essenza di una vera umanità.

Sta di fatto che la scuola del disagio ha portato ad una deculturizzazione di massa senza precedenti, apprezzando i punteggi nei test più del pensiero critico e dell’istruzione, celebrando l’addestramento meccanico al lavoro e la singola abilità di far soldi, incanalando gli utenti in un sistema feudale di padroni e servi obbedienti delle imprese.

Tale cultura è peraltro funzionale alle inconfessate esigenze totalitarie di un determinato sistema di potere. Questo disastro è il prodotto di una cultura dogmatica e ideologizzata dei promotori della riforma, incapaci di pensare, su un piano conoscitivamente alto ed eticamente valido, il nesso tra scuola e società.

O, per essere più chiari, questo disastro è il prodotto di uno Stato che ha distrutto il proprio sistema educativo, svuotando la scuola di ogni contenuto e preparando il terreno alla sua demolizione definitiva, in un percorso strettamente legato alla denazionalizzazione.

Oppure c’è ancora qualcuno che pensa che il Ddl della Buona Scuola, contro cui si è scioperato ieri, che porta avanti la cosiddetta “buona autonomia”, con il dirigente scolastico che sceglie la propria squadra modellandosi sempre di più sugli amministratori delegati delle imprese, che non garantisce le assunzioni promesse a settembre scorso, che mortifica ancora di più i docenti, che non cambia la sostanza di una scuola in agonia possa essere accettato da chi si aspetta una possibile concreta realizzazione di una scuola diversa per concezione e progetto?

Una scuola  che ispiri i bambini a pensare, che aiuti i giovani a scoprire le proprie potenzialità perché insegnare significa instillare i valori e il sapere che promuovano il bene comune e proteggano una società dalla follia dell’amnesia della storia.

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