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Italia: i crimini ambientali di Bussi e l’omertà di uno Stato

di Salvo Ardizzone

La falda dei fiumi Tirino e Pescara, da cui era attinta l’acqua potabile per almeno 700mila abruzzesi, dalla fine degli anni ’60 è stata sistematicamente contaminata dalla colossale discarica abusiva di Bussi, in pratica la più grande d’Europa: 30 ettari a cielo aperto, ai piedi del Parco del Gran Sasso e di quello della Majella, in cui la Montedison ha scaricato qualcosa come 1 milione e 800mila tonnellate di rifiuti tossici e scarti industriali provenienti dall’ex polo chimico Montedison vicino.

Un mostro simile è stato finalmente “scoperto” nel 2007, quando indagini e imputazioni andavano avanti da anni; già questo la dice tutta sulle coperture e connivenze di cui ha goduto una vicenda sotto gli occhi di tutti e di cui tutti erano a conoscenza, ma sulla quale coloro che erano tenuti a vigilare hanno preferito guardare altrove.

Ora, la Corte d’Assise di Chieti, dopo un processo a porte chiuse, ha assolto tutti i 19 ex dirigenti e tecnici Montedison imputati del reato di “avvelenamento doloso di acque” e ha derubricato il disastro da doloso a colposo, con la conseguenza di vedere il processo estinto per prescrizione.

Inutile il pesantissimo rapporto dell’Istituto Superiore della Sanità, che attestava che quell’acqua era indiscutibilmente contaminata a livelli inverosimili per effetto delle attività industriali e dell’incontrollato sversamento di rifiuti tossici. Inutile pure calcolare per le bonifiche un costo di almeno 500/600 ml: è come sperare di ottenere la luna.

Ora, che almeno l’esistenza del disastro ambientale è stata appurata e la colpa addebitata all’ex Montedison, si cercherà d’avviare un’azione civile contro l’Edison, che nel frattempo ha ceduto gli impianti alla Solvay; ma pensate che, fra un rinvio e una maxi perizia, si vedrà mai la fine del processo?

Il disastro c’è, è stato appurato anche in sede giudiziale e nessuno sarà chiamato a risponderne. Uno di motivi risiede nella fattispecie di reato attualmente prevista dal codice per l’avvelenamento delle acque, che risale “appena” al 1930; con quell’imputazione, redatta in tempi in cui l’inquinamento industriale era sconosciuto, è semplicemente impossibile giungere a sentenza, e per quanto attiene la colpa, anche se appurata, sopravviene sempre la prescrizione a cancellare tutto.

Certo, si potrebbe rivedere codice e normativa per tutelare il Paese e la popolazione da reati sempre più pesanti e micidiali (bastano un paio d’altri esempi per tutti: la strage silenziosa d’Augusta e lo sconcio della Terra dei Fuochi), ma volete che dovendo scegliere fra gli interessi delle multinazionali e quelli della gente, il nostro parlamento, o peggio il Governo, licenzierà mai provvedimenti che gli interventi di lobbysti e “amici degli amici” non abbiano resi praticamente inutili?

È questa certezza d’impunità che moltiplica all’infinito i casi, rende immensamente convenienti quei reati e riempie d’arroganza chi li commette. Nell’Aula di Chieti, il professor Tullio Padovani, uno dei difensori degli imputati, commentando le proteste della popolazione che manifestava fuori per chiedere giustizia, s’è permesso di tuonare contro i giudici intimando loro di “tenere la schiena dritta”.

No, quello in cui viviamo non è un Paese né una Nazione, è un paradiso per i potenti, gonfi di soldi e privilegi, e un inferno per tutti gli altri, privi di diritti e di tutele.      

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