Immigrazione: la nuda vita che sfida il mare
Immigrazione – Il mare è ingovernabile, non conosce premura. È anarchico, non ha né Dio né padroni. Possiede la furia e la meraviglia, la sciagura e la gioia, il disastro e la storia. Il mare, Mediterraneo, antica mira e odierno miraggio, culla e poi tomba di una “civiltà incivile”. Il mare unisce mentre traccia confini, lambisce le coste e accarezza la morte. Il mare divide, è una ferita salata che separa due mondi non sempre lontani, abbracciati e congiunti dalle stesse acque. Il Mediterraneo è Mediterraneo, la distinzione tra europeo e africano si fa sempre più sottile, e tra Tunisi e Trapani si respira un’aria simile. Qui si percepisce l’incontro, in grado di creare uno degli ambienti più suggestivi del pianeta. La fredda Europa settentrionale è lontana quanto l’Africa nera da cui provengono gran parte dei flussi migratori diretti verso il “vecchio continente”.
Quando il mare si spalanca agli esseri umani provoca sempre sensazioni contrastanti. Per i migranti subsahariani che impiegano anni a raggiungerlo può sembrare persino un traguardo, un sentore di libertà, di imminente fortuna. Sanno, in realtà, a cosa vanno incontro, andando ad affrontare un mare che negli ultimi venticinque anni ha mietuto circa 30mila vite umane. E qui non c’è politica, non c’è filosofia, non c’è scienza alcuna. La disperazione dell’umano che sfida la morte e consegna la sua vita, il suo corpo emaciato nella mani di un destino sconosciuto, possiede ragioni che per noi, nati dall’altra parte del Mediterraneo, non potranno mai essere pienamente comprensibili. Solo il mare ha visto e ha potuto capire. Solo il mare ha saputo e sicuramente saprà.
Tre figure umane si muovono dalla Nigeria settentrionale verso Agadez. Sono tre fratelli e hanno venduto tutto quello che avevano per pagarsi un viaggio verso nord. La loro partenza è una scommessa su un futuro indecifrabile e la loro storia è solo una delle tante che ha percorso il deserto fino alle coste libiche o tunisine. La racconta Andrea Staid nel suo “I dannati della metropoli” (“Le Milieu”, 2014) in cui raccoglie diverse storie di migranti che hanno raggiunto l’Italia dopo viaggi estenuanti, lasciando la propria terra e la propria famiglia. Nelle loro prospettive c’è il sogno di una vita dignitosa per loro e per la loro famiglia. Partono perché nessun altro dei loro fratelli sia costretto un giorno a partire, ma le avversità incontrate lungo il percorso sono innumerevoli e la loro odissea ha inizio fin da subito.
Ad Agadez un gruppo di militari percuote i tre fratelli e li deruba dei soldi necessari per pagare la tratta di viaggio fino in Libia. Depauperati di tutti i loro risparmi, rimangono nella città nigerina per otto mesi cercando di lavorare per mettere insieme una certa quantità di denaro sufficiente per attraversare il deserto in camion. Una settimana, senza cibo e con poca acqua, aggrovigliati in un ginepraio di carni umane, ma con la convinzione di aver compiuto la scelta migliore e col divieto assoluto di voltarsi indietro.
L’autocarro non varca il confine con la Libia, si ferma a Dirkou, altro luogo nel mondo dove tra inferno e crosta terrestre è solo questione di pochi centimetri. Dirkou segna il passaggio dal Ténéré al Sahara, ma è soprattutto un luogo di soprusi e vessazioni da parte dei militari sui migranti. Qui i tre fratelli vengono nuovamente malmenati e derubati, compresi i vestiti. Dicono di aver visto di tutto in quel luogo, cose talmente atroci e indescrivibili da scavalcare l’inimmaginabile.
Tra queste, molte persone costrette dai militari a trangugiare acqua putrescente che consentisse loro di espellere le banconote arrotolate in palline di cellophane che avevano inghiottito per non farsi derubare. Fortunatamente uno dei tre fratelli riesce a nascondere una minima parte del denaro per pagare la parte di tragitto fino alla Libia e la prassi è la stessa. Il viaggio estenuante termina senza motivo in un luogo indefinito, nel mezzo del deserto del Sahara, sotto la furia del sole.
I tre camminano ininterrottamente per cinque giorni e riescono ad arrivare ad Al-Gatrun, un piccolo villaggio nel sud della Libia, dove dopo parecchi giorni riescono a trovare un’occupazione nel settore edile. Sorpresi senza documenti da un gruppo di militari, per i tre fratelli inizia la tragedia del carcere libico e delle torture, ma soprattutto della separazione. Due anni in prigione senza motivo alcuno. Quando il fratello maggiore esce dal carcere rimane piacevolmente sorpreso alla vista dei suoi fratelli che lo stanno aspettando con i soldi necessari per pagare il tragitto in mare. Quattro anni è durato il loro viaggio, dalla Nigeria alle coste italiane, ma la loro odissea non si è mai conclusa.
Si considerano “fortunati”. Hanno attraversato il Mediterraneo non senza tormenti, ma sono arrivati vivi alla meta agognata. Strana sensazione dev’essere quella di trovarsi nuovamente rinchiusi dentro una gabbia in cemento a Lampedusa, mentre tenti di capire in che senso l’Europa coinvolga quel luogo. La cerchi ovunque quell’Italia che tante volte ti hanno cantato, e non la trovi. Piuttosto incontri qualcuno che biascica un inglese scolastico che ti dice che sei irregolare e devi tornare in Libia. Cose da non credere.
Dopo ventidue giorni i fratelli vengono imbarcati in una nave diretta in Sicilia assieme ad altre centinaia di immigrati, abbandonati al loro destino. No, non è l’Italia che s’immaginavano. Interi giorni di lavoro massacrante mai pagati, frequenti umiliazioni, nessuna casa da abitare e a volte neanche un pasto da poter consumare. Dopo tanti mesi in Italia non hanno nemmeno i soldi per sopravvivere, figuriamoci quelli da mandare alla loro famiglia in Nigeria. Ma “a man is supposed to be a man”, dicono, un uomo deve essere un uomo e quando vedi che la tua famiglia non ha da mangiare devi fare qualcosa. Non hanno speso oltre quattro anni di “nuda vita” per essere umiliati, ma per dare una speranza di vita migliore alla loro famiglia. E qui subentra la sapiente analisi di Staid che considera “atto di resistenza” la pratica illegale in assenza di alternative, perché la sopravvivenza è sopravvivenza e anche qui non c’è né politica, né filosofia, né scienza alcuna.
Il cicaleccio nazionale attorno all’immigrazione coinvolge tutti gli ambienti politici e “prepolitici”. Non è in questo articolo che si vuole ribadire come il tema sia manipolato dall’alto verso il basso, nel tentativo di creare un sentimento comune di rabbia contro gli strati più poveri della popolazione. Una pratica antica che purtroppo riesce ancora a funzionare. Dai centri di potere da cui proviene la narrazione del “nemico comune” puntualmente piovono lacrime pietose davanti all’ennesima tragedia nel Mediterraneo.
L’industria del cadavere crea profitti a sufficienza per far parlare politici, televisioni e giornali per qualche giorno. Nessuno si sofferma veramente sulla disperazione dell’umano, nessuno si occupa di trovare una soluzione al proprio orrendo appetito. Le carcasse gonfie di uomini, donne e bambini in mezzo al mare sono numeri in pasto alla statistica, utili agli avvoltoi della politica nostrana. La “nuda vita” di quegli esseri umani che emigrano verso il mondo occidentale possiede, in realtà, un’identità che non è solo fisica, ma anche storica e culturale. Gli immigrati esistono solo per difetto nella comunità d’origine e per eccesso nella società che li riceve, ma portano appresso un bagaglio che è anche e soprattutto culturale, che al di là della disperazione racconta di una dignità in grado di sfidare anche il mare e di sopravvivere all’interno della marginalità alla quale sono relegati.
di Lorenzo Ghetti