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Libia, guerra del business che minaccia il Mediterraneo

Parlare della Libia è molto difficile e soprattutto è complicato farlo in modo approfondito e completo. Sono moltissimi i protagonisti e altrettanti i movimenti in atto. Senza dubbio decisioni di politica internazionale errate, interessi energetici e traffici di armi hanno fatto di questo Paese una “Tortuga” pericolosa. L’assalto ai “forzieri” è stato massiccio, agguerrito e scomposto.

Tre elementi di questa guerra di tutti contro tutti ma ognuno fuori dal proprio Stato, sono saltati definitivamente alla ribalta: l’impiego non di eserciti ufficiali ma di milizie e contractors privati, l’esistenza di vere e proprie agenzie internazionali di mercenari reclutate dagli Stati e tante armi che c’erano già prima di Gheddafi e quelle arrivate dopo la caduta pur con tutto l’embargo.

Di tutto questo ginepraio è giusto far parlare chi ne sa molto e così siamo ricorsi, grazie alla gentile intercessione di Giorgio Beretta e alla Rete Italiana per il Disarmo, a due illustri studiosi che ne fanno parte, Maurizio Simoncelli e Carlo Tombola.

Simoncelli è vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (1982). Storico ed esperto di geopolitica, oltre ad aver realizzato numerose ricerche sull’industria militare, sulle forze armate italiane e sulla geopolitica dei conflitti, dal 2002 collabora come docente presso il Master Nuovi orizzonti di cooperazione e diritto internazionale della Focsiv/Pontificia Università Lateranense. Ha appena pubblicato Terra di conquista. Ambiente e risorse tra conflitti e alleanze (Città Nuova Ed.). È direttore editoriale del mensile on line “Iriad Review” e coordina l’attività documentaria del sito Archivio Disarmo. Infine, ma non meno importante, è cofondatore della Rete Italiana Disarmo e della Rete Pace, partner italiano di Ican, Campagna Internazionale contro le armi nucleari, premio Nobel 2017.

Carlo Tombola vive e lavora a Milano, è coordinatore scientifico di Opal (Osservatorio Permanente Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia), nonché tra i fondatori di The Weapon Watch (Osservatorio sulle Armi nei Porti europei e mediterranei). Entrambe le organizzazioni citate aderiscono a Rete Italiana per il Disarmo. Insieme a Sergio Finardi è l’autore di “Le strade delle armi” (Jaca Book, 2002).

  1. Dott. Simoncelli, quali interessi si stanno giocando le potenze straniere in Libia?

Come nella maggior parte dei conflitti, in particolare nell’area mediorientale e nordafricana, sono presenti diverse potenze straniere interessate alle risorse energetiche, al controllo del territorio o all’espansione della propria influenza. Qualche dato ci aiuta a capire meglio il tutto. La Libia ha riserve petrolifere accertate per 48.400 milioni di barili alla fine del 2019, con una produzione giornaliera di 1.227mila barili. Prima della caduta del regime di Gheddafi la produzione si aggirava sui 1.700mila barili (2010).

Per il gas la Libia ha riserve per 1,4 trilioni di metri cubici, con una produzione nel 2019 di 9,4 miliardi di metri cubici (a fronte di una produzione di 16 nel 2010). Queste cifre, seppur rilevanti, comunque non la collocano ai primissimi posti a livello mondiale, ma comunque, almeno per il petrolio, le attuali riserve accertate rappresentano il 2,8 delle riserve mondiali: non poca cosa. Questo è il motore primo dell’intervento militare internazionale del 2011 e della successiva guerra in atto in quel Paese.

  • L’Eni è presente in Tripolitania o Cirenaica? È vero che le milizie Tuareg compiono attacchi contro l’Eni? Se si, per conto di chi?

L’Italia attraverso l’Eni da tempo è presente in Libia e attualmente, on shore e off shore, lo è sia in Cirenaica (Bu Attifel), sia in Tripolitania (Bahr Essalam, Mellitah, Bouri) sia nel Fezzan (El-Feel, Wafa), le tre grandi regioni di questo Paese. L’instabilità causata dall’intervento internazionale contro Gheddafi, dalla rivalità successive tra i due leader al-Sarraj e Haftar, nonché dalla profonda realtà tribale (ossatura fondamentale di questo Paese) fa sì che questi impianti – strategicamente importanti – siano esposti ad attacchi, con lo scopo d’impossessarsene o comunque di premere sul gestore per ottenerne un compenso (in gergo si direbbe “offrire protezione”).

Le varie fazioni armate, costituite appunto sulla base di appartenenza tribale, si confrontano duramente e a volte ci sono stati scontri interni alle stesse coalizioni. Non possiamo certo parlare di eserciti regolari come il nostro. La tribù che garantisce sicurezza ad un impianto ne ottiene anche un compenso. Comunque non dimentichiamo che tali impianti anche in Algeria come in Nigeria, tanto per fare un esempio, sono sempre esposti al pericolo di attacchi, magari con motivazioni diverse.

  • Quale collegamento c’è tra l’appoggio di Erdogan al Governo di Unità Nazionale di Al-Sarraj, la partita che la Turchia si sta giocando nel Mediterraneo Orientale e il più grande giacimento di gas trovato di fronte a Cipro?

Il “sultano” Erdogan sta giocando un’importante partita sia nazionale sia internazionale. Ha represso duramente ogni forma di opposizione interna (stampa, curdi, Hdp ecc.) e sta cercando di far fronte ad una crisi economica interna (la lira turca in quattro mesi nel 2020 ha perso circa il 17% del suo valore nei confronti del dollaro, mentre la disoccupazione è intorno al 17%), in contemporanea alla crisi da Covid-19.

Sul piano internazionale, proseguendo la linea spregiudicata del pugno di ferro, ricordiamo che l’espansione armata nel Kurdistan siriano e l’acquisto disinvolto di sistemi d’arma dalla Russia (pur essendo un alleato Nato) vanno di par passo per un nuovo ruolo geopolitico di potenza regionale che Ankara intende svolgere, sia reclamando la sovranità marittima su alcune zone del Mediterraneo orientale vicino a Cipro (ricordiamo che l’Italia, alleata nella Nato, dovette ritirare di corsa la Saipem dell’Eni a seguito delle minacce turche nel 2018), sia offrendo concreto sostegno militare al Governo di Unità Nazionale di Al-Sarraj, mentre la comunità internazionale – ancora una volta divisa anche su questo – si è limitata ad altisonanti dichiarazioni.

Il Mediterraneo orientale e la Libia hanno in comune risorse energetiche significative ed importanti per l’economia turca: ancora una volta abbiamo la motivazione di questi interventi.

  • Nel Paese libico abbiamo la Turchia e il Qatar che appoggiano il Governo di Al-Sarraj, abbiamo l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti schierati con le forze dell’Esercito Nazionale Libico di Haftar ai quali si aggiunge la Russia che però detiene una facciata diplomatica, ma in realtà sul campo ci sono moltissimi mercenari e contractors provenienti da tutto il mondo gestiti da note compagnie, principalmente americane e inglesi. In Cirenaica ci sono i mercenari ceceni (presenti anche tra le fila dell’Isis in Siria), c’è la presenza di consiglieri militari francesi e contractors statunitensi. In seguito, la Turchia ha assoldato miliziani siriani e sul territorio ci sono residui di combattenti Isis al soldo di chi non si sa bene. Ma una domanda sorge spontanea in questo gigantesco e grottesco calderone libico: ma perché l’uso di così tanti mercenari in Libia?

In Libia, come in Siria o nello Yemen, sono presenti sia forze regolari sia gruppi armati di varia natura e provenienza, dai contractors ai mercenari, dai consiglieri militari a combattenti di fede islamica estremista. Il dato più evidente consiste nel fatto che attualmente molti governi cercano di non intervenire ufficialmente con proprie truppe (pensiamo anche alla Russia e alla vicenda ucraina), dato che l’opinione pubblica, soprattutto nei Paesi democratici, non gradisce l’eventualità di propri soldati morti in guerre che spesso sente “lontane” da molti punti di vista. La teoria delle “perdite zero” è dunque alla base della diffusione dei nuovi sistemi d’arma come i droni, comandati a distanza, ma in grado di uccidere anche a centinaia di km.

L’applicazione dell’intelligenza artificiale ai sistemi d’arma sta già portando la ricerca verso le cosiddette armi autonome, i killer robot, in grado di selezionare, individuare e colpire l’obiettivo senza alcun intervento umano. In Libia, oltre all’uso diffuso di droni da attacco, infatti si stanno utilizzando anche contractors e mercenari al soldo dei tanti e diversi attori locali ed esterni, che permettono appunto di non farsi coinvolgere ufficialmente e di poter negare ogni interferenza. È una guerra senza più regole, senza confini e senza limiti, in cui la popolazione civile paga il prezzo più alto in una partita dove gli interessi locali, regionali ed internazionali si intrecciano inestricabilmente.

  • Dott. Tombola, sulla Libia c’è l’embargo di armi in quanto è un Paese in guerra, ma se si combatte vuol dire che le armi arrivano a tutte le parti. Abbiamo a che fare con commercianti d’armi riconosciuti, con eserciti privati e milizie al soldo di chi offre servizio, di Paesi impegnati per “procura”. Lei saprebbe dire da dove le armi partono? E dove arrivano?

Sì certo, anzi le armi arrivano prima e anche nel caso della Libia sono arrivate prima, anzi erano già lì, perché le industrie militari occidentali – con la benedizione dei rispettivi governi, quello italiano in testa – avevano fatto a gara per rifornire di armi il regime di Gheddafi nell’ultima sua fase. Quindi fu criminale quel che successe alla caduta di Gheddafi, l’accelerazione impressa dalla Francia di Sarkozy (per revanche petrolifera) non ha lasciato il tempo di organizzare il rastrellamento e il rientro degli arsenali, cosa possibile anche se sarebbe stato evento inaudito nella storia.

Da quel momento, le cancellerie occidentali hanno scommesso sulle fazioni tribali libiche, in proporzione alla parte di arsenale bellico nelle mani di ciascuna. E si è messa in modo la logica perversa del “riequilibrio militare” ogni volta che una delle fazioni otteneva un successo militare o diplomatico significativo, gli alleati delle fazioni deboli in quel momento sono intervenute a riequilibrare il conflitto.

Così via via sono intervenuti nell’escalation gli aiuti di Francia, Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Russia, Giordania (a favore di Haftar), mentre Turchia, Italia, Qatar sostengono al-Serraj. Gli aiuti sono sia in denaro che in armi e combattenti. In alcuni momenti i contendenti riescono a pagare in petrolio o in concessioni petrolifere di futuro sfruttamento.

Clamorosi i casi dei missili Javelin, di fabbricazione Usa ma consegnati dalla Francia ad Haftar (giustificazione ufficiale francese penosa, assai scarsamente credibile); i pickup e i blindati consegnati dalla nave Bahri Abha (saudita) a Tobruk nel 2017 le migliaia (almeno 7mila) di combattenti siriani tolti dal fronte anti-curdo e dirottati dalla Turchia in Libia (si dice anche passando per l’Italia… ma non è controllabile); i ripetuti avvistamenti di navi “ro-ro” scortate da fregate della marina militare turca da parte di navi da guerra francesi (implicate sia la portaerei Charles de Gaulle che la fregata Courbet).

  • Via terra le armi attraversano quali Paesi? Quali tragitti aerei fanno? Atterrano in alcuni paesi dove l’embargo non c’è e poi proseguono per strada e via mare? Oppure atterrano direttamente in Libia?

Per molte ragioni, sono stato più attento ai movimenti marittimi, i maggiori dettagli riguardano le navi in partenza dalle coste turche e dirette ai porti della Libia occidentale. Le Monde ha dettagliato anche i tragitti.

Non ho notizie di ‘triangolazioni’ su vie aeree, né su movimenti dai porti/aeroporti italiani di armi dirette in Libia. Il lungo confine terrestre tra Egitto e Libia è la via più semplice per eludere i controlli marittimi. Da tener conto che Cipro e Malta possono per la loro prossimità essere facilmente coinvolte nelle triangolazioni.

A margine, faccio notare che la Francia sta facendo un doppio gioco diplomatico-militare assai confuso e che gli Stati Uniti – apparentemente disinteressati – hanno un uomo sul campo (Haftar) che è stato a lungo negli Usa, per anni istruito dalla Cia, con passaporto americano.

  • Dott. Simoncelli, note inchieste hanno rilevato che in Libia è stato presente il cosiddetto esercito privato “Wagner” appoggiato dal Cremlino, mentre invece fanno capo a Erik Prince, il più famoso imprenditore di mercenari d’America, contractors schierati sull’altro fronte o ovunque ce ne sia bisogno. Mr Prince fornisce forze di milizia privata per mestiere e tra tanti fa affari anche con un certo James Fenech, commerciante d’armi maltese: ma non è pericoloso questo fiorire di milizie private?

La privatizzazione della guerra, attraverso la creazione su scala industriale di milizie di mercenari (tali sono i contractors), è certamente un fenomeno pericoloso. Da un lato sgrava ufficialmente i governi nazionali dalle responsabilità politiche e giuridiche di un intervento diretto, che può essere compromettente, ma permette loro – attraverso queste società, che comunque hanno rapporti con essi (ex ufficiali, specialisti ed esperti, fornitura di armamenti e munizioni, ecc.) – di dichiararsi estranei e di poter contemporaneamente essere comunque in quei territori a garanzia dei propri interessi. Dall’altro, queste società non sono sottoposte alle stesse normative giuridiche internazionali che regolano l’azione delle forze armate regolari, con precise regole d’ingaggio, principi di responsabilità e di proporzionalità.

Di fatto vi è una specie di limbo in cui esse operano, tanto che in Italia è vietato il reclutamento di mercenari per altri Stati. In questa area grigia è ovvio che i rifornimenti di mezzi militari, armi e munizioni avviene attraverso i più disparati canali, compresi i commercianti privati di armi. Ma non va dimenticato che armi e munizioni, prima di finire nel mercato clandestino, sono state sempre vendute ufficialmente a qualche governo. L’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo ha pubblicato lo scorso hanno un ampio dossier sul commercio clandestino delle armi piccole e leggere nel Mediterraneo allargato, da cui emergono da un lato rotte che si incrociano tra Europa, Nord Africa e Medio Oriente e dall’altro l’insufficienza delle politiche di controllo delle esportazioni ufficiali.

  • Che differenza c’è tra una milizia privata impiegata comunque evidentemente per conto di uno Stato e quei reparti specializzati delle forze armate addestrati per specifiche operazioni? Che uso se ne fa di questi eserciti privati se s’interviene su un territorio per uno stato di guerra palese?

I Navy Seals statunitensi, i nostri Lagunari, le varie unità definite a volte con termine giornalistico “teste di cuoio” sono composte da militari in servizio effettivo presso le forze armate nazionali e specializzate in determinati tipi di azioni, ma soggette a disciplina militare, ad una chiara catena di comando e alla legislazione nazionale. In zone di guerra i contractors, legati a società ben strutturate (si parla di un giro di affari di 400 miliardi), non offrono solo servizi di sicurezza o di logistica a società private o anche ad altre organizzazioni, ma spesso partecipano direttamente al conflitto stesso. Il Washington Post stima circa 4mila di loro deceduti in Afghanistan. Sono particolarmente utili nelle azioni coperte e nelle guerre segrete, quelle di cui non si parla sui mass media, oppure se ne parla con un’informazione lacunosa o addirittura pilotata.

Non dimentichiamo che nel mondo occidentale (e non solo), dopo la vicenda della guerra del Vietnam in cui i mass media fecero vedere l’orrore vero del conflitto, il controllo e la manipolazione dell’informazione sono divenuti fondamentali per condizionare l’opinione pubblica. Basta ricordare la campagna contro la televisione serba durante la guerra nei Balcani (volta a giustificare il bombardamento della sede giornalistica), l’accusa rivolta all’Iraq di Saddam Hussein circa il possesso di armi di distruzione di massa (inesistenti) o le motivazioni dell’intervento contro la Libia di Gheddafi (protezione dei civili di Misurata). Se in guerra non si trasmettono più informazioni e il lavoro “sporco e pericoloso” lo si fa fare ai contractors, i governi ne possono uscire con le mani apparentemente pulite.

di Ilaria Parpaglioni

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