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Imam Husayn ha ispirato le élite non musulmane

“Non considerare morti quelli che sono stati uccisi sul sentiero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore” (Corano 3:169). E’ così che il libro sacro dei musulmani spiega, nella sura Âl ‘Imrân, come il martirio non equivalga alla morte. Se il corpo, corrotto e materiale, perisce, ciò non si può dire dell’anima, la quale, immortale, perdura nel tempo. L’Imam Husayn bin Ali (626-680), terzo Imam dello Sciismo e secondo figlio di Fatima bint Muhammad (605-633), figlia del Profeta Maometto (571-632), sacrificò la propria vita e quella della sua famiglia per difendere il messaggio genuino e reale della religione islamica, distorto dalla tirannia dei potenti.

La sua figura e il significato profondo del decimo giorno del sacro mese di Muharram (10 ottobre 680 d.C.), data in cui venne orrendamente trucidato insieme ai suoi cari e al suo seguito dalle truppe del califfo omayyade Yazid (645-683), durante la Battaglia di Karbalāʾ, nell’odierno Iraq, sono vivi e sentiti ancora oggi, moniti eterni contro l’ingiustizia e il sopruso. Il suo martirio, commemorato dagli sciiti nel giorno di Ashura, simbolizza la vittoria del sacrificio individuale sulla violenza dei potenti. L’eredità religiosa, etica e morale del gesto di Husayn, riverbera nelle coscienze di coloro i quali hanno riposto fiducia nei valori della libertà e della giustizia, durante tutto l’arco della storia, ben oltre i confini di Karbalāʾ.

Il Mahatma Gandhi (1869-1948), icona spirituale, leader del movimento indiano per l’indipendenza dal Regno Unito, ebbe a scrivere che: “Lo sviluppo dell’Islam non dipende dall’uso della spada da parte dei suoi fedeli, bensì dal supremo sacrificio dell’Imam Husayn, il grande santo”. Egli trasse ispirazione dalla strenua lotta dell’Imam contro l’oppressiva tirannide del califfo Yazid, per promuovere la nota “Marcia del Sale” (Salt Satyagrah) manifestazione non violenta che, nella primavera del 1930, vide rivendicare simbolicamente da parte del popolo indiano il possesso delle saline.

Il poeta bengalese Rabindranath Tagore (1861-1941), primo non occidentale ad essere insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1913, definì “esemplare” l’approccio dell’Imam Husayn al perseguimento della giustizia, concependo il sacrificio quale mezzo per tenere in vita la giustizia e la verità, valida alternativa al ricorso ad eserciti ed armamenti.

Charles Dickens (1812-1870) dedusse, dai tragici eventi di Karbalāʾ, come l’Imam Hussein avesse rinunciato a tutto per il bene dell’Islam, il credo religioso rivelato al nonno, il Profeta Maometto. Lo scrittore inglese scrisse: “Se Husayn avesse combattuto per placare i suoi desideri mondani, allora non comprendo perché sua sorella, sua moglie e i suoi figli lo stessero accompagnando. Ciò dimostra, perciò, come egli si sia sacrificato unicamente per l’Islam”.

Edward G. Brown (1862-1926), insigne docente di arabo e di studi orientali presso l’Università di Cambridge, lodò la figura di Hussein, definendo “la visione dei campi da guerra di Karbalāʾ ricoperti di sangue” quale “[…] sufficiente ad evocare, anche agli occhi dei più indifferenti e sventati, le emozioni più profonde, il più vivido dolore ed un’esaltazione dello spirito davanti alla quale il dolore, il pericolo e la morte si riducono a inganni non considerati” (A Literary History of Persia, 1919).

L’influenza delle gesta del terzo imam sciita nell’ambito del mondo occidentale, non musulmano, non si esaurì: nel volume “Declino e caduta dell’Impero Romano” (1776), lo storico inglese Edward Gibbon (1737-1794) attribuì agli eventi di Karbalāʾ e alla decapitazione dell’Imam Husayn la capacità di accendere le fiamme della compassione anche nel cuore del “più freddo lettore”.  Un secolo dopo, fu lo storico e saggista scozzese Thomas Carlyle (1795-1881) a vedere in quegli stessi fatti storici la dimostrazione di come una minoranza possa risultare vittoriosa nei confronti della maggioranza, in quanto “[…] la superiorità numerica non conta quando ci si confronta con la verità e la falsità […]”.

Da Oriente ad Occidente, il ricordo di colui che ha sacrificato la propria esistenza cosicché il vero Islam potesse sopravvivere, archetipo di valori sentiti e vissuti come propri da entrambi i mondi, continua ad influenzare e motivare.

di Vanni Rosini

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