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Il ruolo strategico dell’Oman nel conflitto yemenita

di Salvo Ardizzone

La Conferenza di pace per porre fine al conflitto yemenita, avviata a Ginevra dal rappresentante dell’Onu Ismail Cheik Ahmed, è fallita per l’ostilità della casa reale saudita, che continua a considerare inaccettabile la perdita del dominio su quel Paese. Tuttavia, con l’aggressione iniziata il 26 marzo scorso, Riyadh sa d’essersi impantanata in un’avventura senza sbocchi, ed ha bisogno d’una via d’uscita che le consenta di salvare la faccia limitando i danni.

Ritornare al tavolo di Ginevra è impensabile, non è in Svizzera e con l’inconcludente mediazione dell’Onu che potranno farsi passi avanti; per questo le diplomazie sono al lavoro da tempo per cercare un’alternativa che pare già trovata nell’Oman.

Il Sultanato, pur facendo parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) fin dalla sua costituzione, si è sempre distinto per la sua politica estera indipendente ed equilibrata, e per i buoni rapporti che ha saputo mantenere con l’Iran. Già nel 2013 ha ospitato i colloqui segreti fra diplomatici di Washington e di Teheran che hanno condotto alla trattativa del 5+1 sul nucleare iraniano e, poco dopo, è sempre grazie alla sua mediazione che sono state avviate le trattative per regolare l’antica contesa fra l’Iran e gli Emirati, sul possesso di un piccolo arcipelago di alto valore strategico perché posto nello Stretto di Hormuz, al centro delle rotte del petrolio.

Qabun Bin Al-Said, il sultano che lo regge dal 1970, ha saputo agire con grande abilità politico-diplomatica permettendo all’Oman, un piccolo Stato, di assumere al ruolo di elemento stabilizzatore dell’area. Infatti, pur appartenendo al Consiglio del Golfo, ha inteso tale struttura come strumento di cooperazione, sbarrando la strada con forza ai tentativi sauditi di trasformarlo in un’unione politica e un’alleanza militare anti-sciita ed anti-iraniana. Da ultimo, dinanzi alle insistenze di Riyadh, nel novembre scorso, ha minacciato di uscire dal Ccg; l’Arabia, rendendosi conto che l’esempio omanita sarebbe stato seguito anche da altri, ha preso atto che il proprio fronte è tutt’altro che compatto ed ha messo una pietra sul progetto.

Nel frattempo, mostrando dinamismo e indipendenza, l’Oman ha sviluppato una fitta rete di accordi economici e commerciali con l’Iran e con i maggiori attori occidentali ed orientali, proiettando le sue attività non solo nell’area, ma fino all’Africa, all’Estremo Oriente e in Europa.

Questa sua capacità di tenere aperti canali privilegiati con tutte le parti, lo rende il mediatore ideale e più credibile per la sanguinosa crisi che vede coinvolti i suoi vicini: Arabia Saudita e Yemen. È l’unico Paese del Consiglio di Cooperazione del Golfo ad essersi rifiutato di aderire alla coalizione saudita che ha attaccato proditoriamente lo Yemen, ed è attraverso di esso che passano gli unici aiuti umanitari per la popolazione martirizzata dai bombardamenti terroristici.

Pare che le autorità omanite abbiano stilato un piano di pace già sottoposto ai contendenti e, dall’inizio di maggio, delegazioni delle parti contrapposte sarebbero state a Mascate (capitale dell’Oman). Inoltre, a fine maggio, c’è stato un incontro fra il capo della diplomazia iraniana, Zarif, e di quella omanita, Youssef bin Alawi.

Con tutta probabilità, esaurite le stucchevoli liturgie dell’Onu a Ginevra, sono cominciate le trattative per porre fine alla bestiale aggressione. Come detto, Riyadh ha bisogno d’una via d’uscita dal ginepraio in cui s’è cacciata col suo criminale quanto irresponsabile colpo di testa. Resta da trovare il modo che, agli occhi sauditi, mascheri la totale sconfitta del suo progetto, e d’altro canto renda giustizia a un Popolo aggredito e massacrato.

Intanto le bombe continuano a cadere e civili innocenti pagano col sangue la sostanziale indifferenza della comunità internazionale.

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