Il riposizionamento delle forze russe in Siria
di Salvo Ardizzone
Il 20 marzo, il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che il ritiro della Task Force dalla Siria si è concluso, ma da allora, col passare dei giorni, si è manifestato per quello che è: un riposizionamento per permettere al Cremlino d’incassare un enorme dividendo politico, senza interrompere l’appoggio al Governo siriano. Un successo strategico ottenuto col minimo sforzo, adesso mantenuto con costi ancora inferiori.
La missione russa ha visto il ridispiegamento in Siria d’un contingente di 5/6mila uomini, che aveva come elemento determinante un reparto aereo giunto a contare 81 velivoli da combattimento: 8 caccia, 32 cacciabombardieri leggeri, 25 cacciabombardieri pesanti, 12 elicotteri d’attacco e 4 da trasporto. A queste forze vanno aggiunti i bombardieri T-22 e T-160 che operavano dalle basi in Russia.
Uno schieramento che ha operato per mesi al ritmo di 80/90 sortite giornaliere, con punte maggiori, lasciando di stucco gli “esperti” occidentali, ridicolizzando l’attività della cosiddetta coalizione a guida Usa e sbriciolando a suon di bombe “ribelli” e Daesh.
Un impegno efficace svolto a costi sideralmente lontani da quelli del Pentagono e dei suoi alleati: pur lasciando da parte le stime semi-ufficiali russe che parlano di 484 ml di dollari per un costo giornaliero della missione pari a 2,89 ml, un conteggio chiaramente per difetto, gli esperti (veri) stimano cifre intorno agli 800 ml; un prezzo comunque ridicolo confrontato ai risultati ed ai faraonici budget sprecati dagli Usa e compagni per svolazzare inutilmente sul deserto, fingendo di combattere l’Isis.
Piaccia o no, l’intervento russo ha realmente ottenuto un risultato strategico e, accanto ai successi militari sotto gli occhi di tutti, ha conseguito effetti politici di prima grandezza: ridimensionare drasticamente le aspirazioni degli Stati che hanno aggredito la Siria, spazzare ogni pregiudiziale sul mantenimento di Al-Assad a capo del Paese, costringere i sedicenti “ribelli” a trattare in una posizione di debolezza ed etichettare per quello che sono, terroristi, la gran parte di essi e, soprattutto, porsi al centro delle trattative sulla crisi siriana in particolare, e mediorientale più in generale.
Ottenuto ciò, con tempismo e abilità, Putin ha compiuto un gesto distensivo che non muta di un pollice la situazione, continuando a sbarrare la strada a Turchia, Arabia Saudita e dietro gli Usa, e sfruttando a pieno le mutate condizioni.
A ben guardare, il ritiro ha riguardato 30 aerei già basati sull’aeroporto di Jableh/Hmeymim: 10 Su-24, 8 Su-25, 10 Su-34 e 2 Su-30; si tratta essenzialmente dei velivoli giunti a settembre che sarebbero dovuti rientrare in ogni caso perché usurati da mesi di missioni condotte al ritmo anche di due sortite al giorno, che necessitano ormai di una radicale manutenzione che non può essere eseguita a Hmeymim.
Con essi sono stati ritirati gli specialisti che hanno passato mesi ad istruire sul campo i siriani sui sistemi d’arma moderni inviati dal Cremlino (carri, blindati, lancia razzi, artiglierie, etc.) ed alcuni reparti a guardia di basi non più necessarie. Restano 1500/1600 uomini fra consiglieri militari, spetsnaz ed elementi del Gru (l’Intelligence militare).
Ma resta pure, e in certe componenti viene potenziato, il reparto aereo: 10/12 cacciabombardieri leggeri Su-24, 4 cacciabombardieri pesanti Su-34 e 8 caccia Su-30SM e Su-35S; ad essi vanno aggiunti una ventina di elicotteri d’attacco Mi-24, Mi-28 e i modernissimi Ka-52 (per la cronaca, quella elicotteristica è una componente in corso di “discreto” potenziamento). Tranne i caccia, quasi tutti velivoli ottimizzati per il supporto aereo ravvicinato che stanno continuando a fornire senza sosta.
Per dare un’idea, nel corso della scorsa settimana, solo nell’area di Palmira il gruppo aereo russo ha compiuto oltre venti sortite giornaliere contro l’Isis; lo stesso avviene nell’area di Raqqa, i cui depositi e centri di comando sono colpiti da continui raid, in quella di Deir Ezzor, dove sono sistematici gli attacchi in appoggio all’enclave governativa ora all’attacco, e nella zona di Idlib, contro i qaedisti di Al-Nusra e i loro alleati “moderati”.
D’altronde, il programma accelerato di revisione dell’Aviazione siriana, portato avanti da tecnici della Mikoyan Gurevich con attrezzature impiantate nell’aeroporto di Mezzeh, a Damasco, ha riportato all’operatività una gran parte della linea aerea siriana, da tempo costretta a terra per mancanza di manutenzione e pezzi di ricambio.
Anche per la Marina il ritiro sarà solo parziale, e non ne intaccherà la sostanza: al momento, al largo della base di Tartus sono presenti sette navi; rimarranno il sommergibile lanciamissili Rostov, una nave di sorveglianza elettronica (Elint) e l’incrociatore lanciamissili Varyag che a gennaio ha sostituito il Moskva. Tra le sue dotazioni e i Pantsir-S1, gli S-300 e gli S-400 basati a terra, rimane intatto il dispositivo antiaereo che ha blindato i cieli siriani.
Ciò che rimane è più che sufficiente a scoraggiare avventure (vedi le farneticazioni di Erdogan e dei sauditi) e mantenere un efficace appoggio contro i terroristi; in ogni caso, nell’annunciare la conclusione del ritiro, il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che, in caso di necessità, il contingente potrebbe essere rischiarato, e se necessario ulteriormente allargato, in 48/72 ore.
Centrati gli obiettivi militari e continuando in pieno l’assistenza, la mossa di Mosca, compiuta con raro tempismo durante una tregua che ufficialmente tiene nei confronti di sedicenti “ribelli” ormai in gran parte sbaragliati, ha dunque una valenza essenzialmente politica e diplomatica. Un ulteriore passo nel ridisegno degli equilibri mediorientali.