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Ilaria Alpi, il mistero sulla morte nel Paese degli omissis

Quello di giornalista è un mestiere ricco sicuramente di insidie, dovute alla caratteristica primaria che un cronista deve possedere, ossia la curiosità: chi prende carta e penna o chi accende un microfono per comunicare qualcosa a lettori o ascoltatori, deve essere spinto da una innata curiosità, capace di far scoprire quelle verità utili a rendere un grande servizio alla collettività. Questa voglia di comunicare, di informare e di informarsi in prima persona, era nel DNA di Ilaria Alpi, giovane inviata del TG3 in uno dei paesi più disgraziati del già di per sé malandato e sfortunato continente africano, ossia la Somalia.

A Mogadiscio la guerra, che tra alti e bassi procede ancora oggi e produce vittime ogni giorno, era iniziata da poco: Siad Barre, uno degli ultimi esponenti della stagione del socialismo africano, era stato rovesciato nel 1991, ma al suo posto non ci fu modo di rimpiazzare un governo sovrano sul territorio e così l’ex colonia italiana, lentamente è scivolata dentro la spirale dei signori della guerra, capi tribù armati fino ai denti grazie ai traffici di droga e di armi effettuati direttamente o indirettamente con uomini legati agli Stati occidentali.

Scattata l’operazione “Restere Hope” dell’ONU nel 1994, a cui parteciparono anche soldati italiani, i media del vecchio continente ebbero da vicino l’opportunità di seguire l’intricata matassa somala, ma in molti si limitarono a sottolineare la “bontà” dell’intervento occidentale e dell’amministrazione americana di Clinton, che aveva il generoso compito di ristabilire pace e democrazia, un copione insomma che abbiamo poi visto recitare in Iraq ed Afghanistan; ma tra i giornalisti giunti a Mogadiscio, c’era anche chi, come Ilaria Alpi, voleva scoprire chi aveva armato i signori della guerra, chi aveva in passato permesso loro di consolidare i propri domini territoriali, chi aveva consentito a questi capi clan di compiere efferati omicidi verso la popolazione civile, in nome della “liberazione” da Siad Barre.

Che la sua missione di cronista la ponesse in grave pericolo in terra africana, probabilmente la stessa Ilaria lo sapeva: infatti, pochi mesi prima del suo arrivo, nel mese di novembre del 1993, era morto in circostanza ancora misteriose Vincenzo Li Causi, sottufficiale del SISMI, suo informatore e colui che, probabilmente, le diede la pista giusta dove muoversi per trovare ciò che stava cercando.

Ilaria Alpi, spinta dalla sua curiosità, aveva saputo cose che, probabilmente, non doveva sapere: aveva scoperto, si apprende da alcune fonti vicine alla giornalista, un giro di scorie nocive provenienti dall’occidente, smaltite in Somalia in cambio di armi e soldi ai potenti signori della guerra; dall’inchiesta portata avanti dalla Alpi, sarebbero emerse delle commistioni con alcuni importanti imprenditori e uomini della finanza italiana.

C’è chi, specialmente nella commissione parlamentare di inchiesta, ha invece avallato l’ipotesi di una semplice rapina andata a male: secondo tale tesi, Ilaria Alpi sarebbe stata oggetto di una vendetta per delle torture subite dal somalo Omar Hassan per opera di alcuni soldati italiani, il quale avrebbe deciso di tendere un agguato a scopo di rapina ad un cittadino italiano e da qui il fallito rapimento alla giornalista e la conseguente morte “fortuita” dovuta alla sparatoria che ne è seguita.

“I banditi liberati (dopo l’arresto da parte italiana) – si legge in un documento della commissione –  versavano in gravi condizioni economiche. Dovevano ripagare i loro avvocati ed avevano comunque urgente bisogno di soldi. Avevano deciso allora di sequestrare degli italiani per vendicarsi del trattamento subito dalla Folgore”.

Ma alcuni conti non tornano: troppe le scie di sangue legate a doppio filo alla morte di Ilaria Alpi. Non solo il sottufficiale Li Causi, come detto prima, ma anche i due operatori televisivi che casualmente si trovavano in zona al momento dell’accaduto e filmarono le famose immagini della giornalista riversa per terra senza vita: si tratta  dell’operatore dell’americana ABC, trovato morto pochi mesi dopo in una stanza d’albergo di Kabul, e di Vittorio Lenzi, cameraman della tv svizzera in lingua italiana, scomparso in un misterioso incidente d’auto a Lugano.

Oltre a tutto questo, bisogna sottolineare il coinvolgimento, come testimone, dell’amica e collega Giuliana Sgrena, la quale arrivò a Mogadiscio dopo l’omicidio e che qualche anno più tardi, nel 2005, sarà coinvolta in un misterioso rapimento in Iraq, culminato con l’uccisione di un altro agente del SISMI, Nicola Calipari.

Insomma, una lunga sfilza di misteri, di morti, che rendono poco chiaro l’evento e, come la storia insegna, quando un qualcosa a diversi anni di distanza è poco chiaro, vuol dire che sarà difficile accertare in futuro la realtà dei fatti.

Di sicuro, c’è una coraggiosa giornalista morta sul campo, che per il suo mestiere e per l’amore della verità, ha lasciato questo mondo ad appena 32 anni; assieme a lei nell’agguato, è morto il suo operatore Miran Hrovatin, di 45 anni. Il 20 marzo, è stato il giorno del diciannovesimo anniversario dalla loro morte: la giustizia italiana, ancora una volta, non ha saputo dare un volto ed un nome ai responsabili di un efferato delitto.

di Redazione

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