Il giullare alla Corte del Re
Renzi è stato a Washington in visita ufficiale; l’accoglienza che gli è stata tributata è quella delle grandi occasioni: conferenza stampa congiunta con Obama, alloggio alla Blair House e così via, ma sul tappeto ci sono stati argomenti pesanti.
Per prima cosa Washington ha voluto rassicurazioni sull’atteggiamento dell’Italia verso Mosca; la visita del Premier italiano a Mosca nel marzo scorso non è piaciuta affatto alla Casa Bianca, e la posizione di Gentiloni al G7 dei Ministri degli Esteri di Lubecca è stata vista come il fumo negli occhi. Per l’Amministrazione Usa, parlare di rivedere le sanzioni alla Russia perché la tregua tiene in Ucraina equivale a una bestemmia; secondo Washington i rapporti con Mosca vanno rivisti nell’ottica di una contrapposizione strategica, punto.
Renzi già a marzo ha glissato, raccontando d’essere andato al Cremlino per tener aperto un canale di dialogo, e ha sussurrato che, in fin dei conti, è l’Italia, insieme alla Germania, a pagare il prezzo più alto per tener fede alle sanzioni volute da oltre Atlantico. Gli americani, per l’occasione sembrano aver abbozzato, ma vogliono ricordare chi tiene le briglie nel caso in cui Roma (cosa invero assai improbabile), spinta da intere categorie produttive che patiscono per quelle sanzioni dissennate, dovesse pensare di far sul serio in difesa della propria economia.
Per il resto, a parte i reciproci convenevoli di circostanza sullo sviluppo economico, le riforme e così via, il nocciolo della discussione riguardava la Libia: lo sfacelo di un Paese distrutto dove l’Italia ha enormi interessi energetici e non solo, e il problema dell’immigrazione, ormai completamente fuori controllo.
Renzi è andato a chiedere due cose: la copertura per un’operazione di stabilizzazione e l’appoggio perché Roma abbia comunque un ruolo di primo piano. Sul primo punto Obama è stato chiaro: Washington non ha intenzione d’intervenire militarmente in uno scacchiere che considera secondario, mentre ha ben altri fronti aperti in Medio Oriente (con altri, come in Yemen, che si potrebbero aprire), in Ucraina e nel Pacifico. Ha risposto picche anche alla richiesta di mettere i suoi droni a disposizione, per colpire obiettivi segnalati dall’intelligence italiana (figurarsi!).
Il fatto è che mentre gli stucchevoli negoziati fra le fazioni si trascinano senza costrutto, la situazione in Libia precipita. A parte gli scontri di tutti contro tutti, nel vuoto che s’è determinato gli appetiti di diverse potenze regionali stanno crescendo, vedi quelli dell’Egitto sulla Cirenaica, con Arabia ed Emirati a sostenerli. E poi c’è il problema colossale dell’immigrazione che, senza interventi risolutivi, rischia di travolgerci in breve nel totale disinteresse della Ue; e questo a Renzi importa e tanto, perché rischia di far crollare i suoi indici di gradimento nel Paese.
Di mettere scarponi sul campo non se ne parla, e meno male: né l’Italia, né tantomeno gli Usa, parteciperebbero ad un’operazione di guerra mascherata da peacekeeping, che avrebbe come unico risultato quello di unire contro un’invasione tutte le parti che per adesso lottano fra loro. Pare resti l’opzione di attacchi aerei mirati contro le basi degli scafisti, e un’azione navale che sequestri le imbarcazioni o le distrugga direttamente nei porti prima della partenza, insieme a interventi di Forze Speciali, mascherati da operazioni di polizia internazionale sotto la solita egida dell’Onu.
Ci sarebbe comunque il problema di quelle masse di disgraziati, che finirebbero presi in mezzo e magari usati come scudi umani; da quanto è trapelato si pensa di creare campi d’accoglienza in qualche Paese africano (leggi Tunisia e forse anche in Egitto), e già immaginiamo i colossal latrocini che saranno montati alle spalle di quella gente.
Sia come sia, Renzi sa che qualcosa deve provare a fare, e ha chiesto garanzie per non rischiare d’essere usato e messo da parte, come capitò all’Italia nella sciagurata avventura del 2011 al seguito di Francia e Inghilterra. A parte belle parole, Obama non s’è sbilanciato, anzi, è subito passato all’incasso chiedendo ed ottenendo che, nel frattempo, il contingente italiano rimanga nel pantano afghano almeno fino alla metà del 2016, con tanti saluti al programma di rientro già programmato. Inoltre ha sollecitato che non ci siano ulteriori tagli al programma d’acquisizione degli F-35, in barba al nuovo Libro Bianco della Difesa che, c’è da scommetterci, s’adeguerà immediatamente.
A consolazione, c’è stata la cena a Villa Firenze, la residenza dell’ambasciatore Bisognero, dove ha incontrato politici e imprenditori americani, e, soprattutto, i più stretti collaboratori di Hillary Clinton, prossima candidata democratica alla Presidenza. In pratica, una prima presa di contatto con i prossimi padroni.
Ricapitolando: Renzi è andato a Washington per scusarsi d’aver speso qualche parola per la nostra economia massacrata dalle sanzioni; per ricevere dei no a richieste di sostegno per i problemi che ci vengono dalla Libia; per dire signorsì alle richieste Usa di mantenere i nostri soldati in Afghanistan e di acquistare gli F-35.
Questo è il fallimentare bilancio che il nostro Premier spaccerà per un successo.