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Il fallimento della guerra che Usa e Arabia Saudita hanno scatenato contro Mosca

di Salvo Ardizzone

Lentamente, ma inesorabilmente, gli effetti perversi dell’aggressione politica e finanziaria Usa alla Russia vanno svanendo, sotto la spinta delle naturali logiche di mercato e degli interessi nazionali, che possono essere distorti o deviati, ma alla fine tornano a galla.

Da oltre un anno Washington ha fatto si che la Ue aderisse alle dissennate sanzioni a Mosca, realizzando il capolavoro di spezzare un’area di collaborazione che s’andava saldando, scaricando il costo dell’operazione sugli alleati/sudditi. In più, per aggravare la pressione sulla Russia e metterla fuori gioco, ha scatenato un attacco finanziario senza precedenti sul rublo e, complici i sauditi, sul prezzo del petrolio che è crollato a inizio d’anno a meno della metà di pochi mesi prima, tirandosi dietro quello del gas.

Con la rendita energetica dimezzata, il rublo in caduta libera e le sanzioni che bloccavano di fatto transazioni e accordi, Mosca ha accusato il colpo ma, come dicevamo, economia, mercati e interessi nazionali seguono logiche che possono essere bloccate, non rimosse: le quotazioni di petrolio e gas sono in risalita e il rublo, da dicembre, continua un lento ma costante apprezzamento.

È successo che Mosca ha preso le sue contromisure e ora guarda all’Asia per il suo sviluppo; ha stretto accordi (enormi) per rifinanziarsi tramite la Banca Centrale cinese e ha superato il picco dei rimborsi del suo debito estero. Inoltre, la produzione Usa di shale oil, che inflazionava l’offerta di petrolio mondiale, s’è ridimensionata sotto l’impatto del crollo delle quotazioni del greggio, facendo presagire lo scoppio d’una micidiale bolla speculativa nel settore; la domanda mondiale d’energia è in crescita e l’Arabia Saudita, dopo aver colpito a morte lo shale e prese nuove fette di mercato grazie i ribassi, ha rialzato i listini. Se a questo s’aggiungono i timori per la situazione yemenita e il fatto che le crisi in Libia, Nigeria e Sud Sudan hanno messo fuori mercato almeno 3 ml di barili/giorno, le prospettive di nuovi ribassi sono remote, anzi, è più probabile il contrario.

In questo quadro, diversi Paesi europei s’interrogano, sia pure sottovoce per non inquietare Washington, sui costi di una crisi e sulla necessità, sempre più impellente, di reperire nuove risorse energetiche che sostituiscano quelle norvegesi e olandesi, ormai in fase calante; di fare fronte alla diminuzione delle forniture algerine, dovuta alla cronica mancanza d’investimenti; di sopperire ai giacimenti libici, messi da tempo fuori causa.

Putin, dal canto suo, un piano ce l’ha: la realizzazione di quel Corridoio Meridionale, tra l’altro fortemente voluto dalla Ue, che metta insieme la South Caucasus Pipeline, la Trans Anatolian Pipeline e la Trans Adriatic Pipeline. Affossato il South Stream dalla volontà di Washington e dalle sanzioni, la creazione di un nuovo gasdotto denominato Turkish (Greek) Stream, risolverebbe tutti i problemi è permetterebbe a Mosca di bypassare definitivamente l’Ucraina lasciandola alle sue velleità e, dal 2019, di non rinnovare più il contratto di transito del gas con Kiev.

L’8 aprile scorso Tsipras era a Mosca; fra i temi trattati era questo a tenere banco: fare della Grecia uno snodo energetico dell’Europa; fatte le debite proporzioni, una riedizione della cooperazione russo-tedesca con il North Stream. Atene ha un disperato bisogno di aiuti, e fare affari i cui profitti servano a pagare i suoi debiti e alimentino lo sviluppo, sarebbe un capolavoro di soft-power per Putin che così non solo realizzerebbe il suo progetto, ma potrebbe influire tramite la Grecia (e la Turchia, altrettanto interessata al gasdotto) sulle dinamiche della Nato.

L’Europa (o per lo meno gli Stati che la trainano) è tutt’altro che contraria al rafforzamento del gracile asse russo-europeo resuscitato dagli accordi di Minsk 2, visto che sia la Merkel che Hollande, prima dell’incontro fra Tsipras e Putin, hanno pubblicamente dichiarato di non essere contrari ad accordi tra Mosca e Atene.

Prove di un timido smarcamento da Washington? Zbigniev Brzezinski, noto politologo vicino a varie Amministrazioni Usa, ha dichiarato che “una Grecia amica di Mosca potrebbe paralizzare le capacità della Nato” (a non parlare della Turchia) e il generale Gomart, capo dei Servizi militari francesi, in audizione alla Camera, ha detto che il problema vero della Nato è di essere schiacciata sulle posizioni Usa, citando come prova ed esempio il fatto che essa ha annunciato sotto dettatura dell’Intelligence Usa che i russi avrebbero invaso l’Ucraina, senza che ci fosse nulla che lo attestasse.

Per George Friedman, consigliere politico del Dipartimento di Stato, il principale interesse degli Usa è impedire la collaborazione strategica fra Russia e Germania (che tirerebbe dietro la gran parte dell’Europa) perché costituirebbe una formidabile potenza. È chiaro per tutti, peccato che i leader europei siano così succubi di Washington.

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