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Il crollo dell’egemonia americana e i nuovi scenari globali

di Salvo Ardizzone

Le crisi attuali, che investono Europa, Medio Oriente e Africa, e le tensioni in alcuni Paesi dell’America Latina (leggi in primis Venezuela), sono frutto, più o meno diretto, dello scontro violento fra l’unipolarismo Usa e il multipolarismo delle varie Nazioni che vogliono farsi strada nel mondo, affrancandosi da un giogo soffocante. Meglio: per quanto riguarda gli Usa, il suo sistema di potere è indissolubilmente intrecciato e al servizio di lobby e centri di potere nazionali, internazionali e a capo di altri Stati (vedi primariamente Arabia Saudita, Israele, storiche multinazionali del petrolio e così via).

Questo fronte ha spadroneggiato nel mondo per molti decenni, e con la fine dell’Urss aveva pensato di poter rimanere per sempre l’unico arbitro globale; ora, dopo aver più volte fallito clamorosamente nel tentativo d’imporsi in molte partite, si sta giocando la sopravvivenza contro gli attori che uno dopo l’altro s’affermano sulle scene regionali e del mondo intero.

Washington e i gruppi di potere collegati, sanno assai bene che l’avversario con la stazza di play maker globale è ormai Pechino, ma per adesso hanno troppi altri fronti aperti per potersi permettere una contrapposizione frontale, così si contentano di provare a “contenerlo”; nel frattempo buttano sul campo ogni energia per affermare il loro potere scricchiolante in Europa, in Medio Oriente, in Africa e in America Latina, dove l’influenza Usa è scesa ai minimi storici.

Laggiù, nell’orbita di Washington è rimasta solo la Colombia, mentre sempre più Stati contestano apertamente la politica a Stelle e Strisce, e il Brasile ha ambizioni di protagonista regionale e non solo. A parte la storica opposizione di Cuba, l’altro Paese che ha preso in mano il vessillo della rivolta contro quell’oppressione è il Venezuela, e per gli Usa è imperativo mettere sempre più in difficoltà il governo di Maduro.

In Medio Oriente, più che mai insanguinato, è in corso la resa dei conti fra il fronte che vede uniti Golfo, Israele e Usa da un lato, e l’arco sciita, che ha preso in mano le redini della Resistenza a quell’imperialismo, dall’altro, con Teheran come primo obiettivo da colpire: guerra in Siria, in Iraq, le destabilizzazioni delle varie “Primavere”, anche il caos in Libia, la guerra dimenticata nello Yemen e le vampate in Palestina e a Gaza, sono tutti episodi di questo scontro esiziale. Come pure lo sono le sanzioni e la guerra economica all’Iran, per tentare di mantenere fuori dalla scena un attore indispensabile alla soluzione dei troppi drammi della regione e non solo.

In Africa, a parte la Libia ormai distrutta che abbiamo già citato, il fronte di Washington e dei suoi interessi si salda con l’imperialismo francese per mantenere il controllo sulle risorse di Stati tali solo di nome, e tenere a distanza altri attori che ambiscono a quelle ricchezze (Cina per prima e poi Sud Africa e Brasile). In Egitto, in Sudan, per tutto il Sahel e altrove, colpi di Stato, guerre suscitate, conflitti resi endemici, corruzioni colossali, tutto è usato da un’unica regia per perseguire lo scopo. 

In Europa, su cui più c’intratterremo perché a noi più vicina, gli Usa avevano diversi obiettivi da conseguire: la Germania stava stringendo legami sempre più stretti con la Russia, arrivando ad ambire a un’egemonia regionale sugli Stati dell’Est e un autonomo rapporto paritario con la Russia, e Mosca stava risollevandosi da un periodo buio; sotto la guida di Putin andava riacquistando peso politico internazionale, potenza economica e capacità di agire su molti scacchieri: Siria, Iran, la stessa Europa; troppi per Washington. Queste ambizioni andavano ridimensionate, spezzando i rapporti fra la Ue e la Russia e isolando quest’ultima.

La crisi ucraina, conseguente al colpo di Stato a Kiev organizzato dagli Usa nel febbraio scorso, ha centrato in pieno gli obiettivi, in più, la tensione attizzata con Mosca ha fornito una motivazione di facciata alla Nato, di cui sempre più aderenti si domandavano l’utilità e lo scopo.

Le sanzioni, a cui la Ue s’è fatta ciecamente trascinare fra il battage dei media e la bufala di Piazza Maidan montata e ripetuta all’ossessione, servono a meraviglia a cronicizzare la crisi con la Russia, non certo a risolverla, a spezzare relazioni commerciali e collaborazioni economiche create pazientemente negli anni, a troncare la più logica delle vie di reciproco sviluppo fra Russia e Ue. Un autentico capolavoro per Washington che d’un colpo ridimensiona il peso dell’Europa e la sua aspirazione d’autonomia, mette in difficoltà la Russia e ridà una funzione ufficiale al suo strumento militare, la Nato, e all’altro, commerciale, il Ttip, che, se sottoscritto, renderebbe stabile la colonizzazione di un mercato fin’ora riottoso ad assoggettarsi. E tutto questo scaricandone interamente i costi sulla Ue, che è quella che di gran lunga perde di più in questa vicenda.

E dire che l’Europa sta attraversando la sua crisi più nera, come da ultima ha certificato l’Ocse; anche la Germania sta entrando in recessione: la sua ricetta economica basata su esportazioni, bassi consumi interni e borsa stretta mostra tutti i suoi limiti, e scaricare i propri squilibri sui vicini non le basta più in un Continente che boccheggia. Su questo scenario l’impatto delle sanzioni è devastante e per Berlino lo è ancor di più, tanto che lo sta già pagando con un tale crollo delle esportazioni che ha sorpreso tutti: macchinari industriali, auto, prodotti chimici, il calo è verticale (il 26% in agosto, adesso è assai di più) e il problema è che quegli spazi li stanno progressivamente colmando altri, e sarà assai difficile riguadagnarli.

Pur soffrendo, e tanto, con una crescita ferma a zero per quest’anno e probabilmente negativa nel prossimo, Mosca si sta rapidamente riposizionando, stringendo relazioni economiche e commerciali con gli altri Brics, anche a condizioni penalizzanti (come nel caso dei recenti accordi energetici con Pechino) ma comunque tali da garantire la sopravvivenza del Sistema Russia che, per inteso, tradizionalmente, è stato sempre capace di dare il meglio di sé nei momenti di crisi, soprattutto se derivante da un’aggressione (militare o economica che sia) che provenga dall’esterno. Caratteristica questa ormai sconosciuta nella Ue.

Ma, come detto all’inizio, tutte queste crisi si tengono l’una con l’altra: l’ennesima dimostrazione è il crollo del prezzo del petrolio, che negli scorsi giorni ha infranto al ribasso il muro degli 80 $ al barile. Abbassando drasticamente i listini in un mondo in cui la crisi ha di già diminuito i consumi, l’Arabia Saudita e le monarchie petrolifere a lei legate hanno dichiarato una guerra rivolta da un canto a difendere le proprie fette di mercato, dall’altra a colpire i bilanci di Russia, Iran e Venezuela, che si sono dovuti allineare. L’Arabia e gli altri Paesi del Golfo perdono tanto, ma poiché hanno i costi d’estrazione più bassi di tutti gli altri, ci rimettono meno e ottengono un secondo risultato: colpire quello shale oil che nel mondo, ma soprattutto negli Usa, stava finendo per fare una pericolosa concorrenza alle tradizionali Major del petrolio e ai centri di potere globale ad esse collegate (per inciso, l’estrazione dello shale ha una reale convenienza a partire dai 75/80 $ per barile).

Questa strategia non deve affatto stupire, perché accomuna Riyadh agli interessi veri di vasta parte dell’establishment di Washington legata a doppio filo al Golfo, che va trasversalmente da Hillary Clinton a corpose componenti repubblicane, insomma il potere tradizionale a Stelle e Strisce; esso ha l’interesse pieno a colpire tanto la Russia, l’Iran e il Venezuela, quanto le nuove società d’estrazione di petrolio e gas non convenzionale, di fatto assai più vicine ai gruppi politici che avevano sostenuto l’Amministrazione Obama, che tanto ha fatto per il loro sviluppo.

Un’offensiva globale insomma, condotta da vecchi centri di potere con tutti i mezzi a disposizione: petrolio, armi, fiumi di denaro, eserciti di tagliagole prezzolati, anche a costo di perdere somme ingentissime; sanno bene che quella in corso è una battaglia che non possono permettersi di perdere, pena il drastico ridimensionamento del loro fin’ora immenso potere.

Tornando all’Europa, e ai guai in cui è sempre più impantanata, fa impressione l’ottusa sudditanza con cui i governanti d’un intero Continente volgono le spalle agli interessi delle proprie popolazioni, per fare quelli d’un imperialismo cinico e avido, facendo pagare un prezzo altissimo per farlo. E questo mentre nel resto del mondo si combatte aspramente per opporsi a queste logiche di rapina. Nelle attuali condizioni, con la Ue ricca di know-how e capacità industriali e la Russia ricca all’inverosimile di risorse, sarebbe una collaborazione naturale saldata da un’ovvia coincidenza d’interessi. E invece… ancora obbediamo al vecchio Zio Sam. 

      

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