I raid russi dimezzano il traffico di petrolio dell’Isis
Se servivano ulteriori prove a dimostrazione del contrabbando di petrolio fra Isis e Turchia, le ha fornite ai giornalisti il generale Sergey Rudskoy venerdì scorso, nel corso del briefing sull’andamento delle operazioni.
I filmati e le foto della ricognizione russa hanno individuato 12mila camion ed autobotti (per l’esattezza 11.775) a cavallo del confine turco-iracheno presso la città di Zakho, nel Kurdistan.
Per sfuggire ai bombardamenti russi, i terroristi hanno cambiato i percorsi che dai campi petroliferi siriani ed iracheni arrivano fino alla Turchia. La scelta del Kurdistan non è casuale: il Governo della regione autonoma curda ha sempre tenuto una posizione ambigua verso Baghdad ed ha sempre trescato con Ankara svendendole il petrolio in barba ad ogni accordo nazionale.
Permettere sul proprio territorio i traffici della Turchia con l’Isis, ovviamente dietro congruo pagamento, mentre le proprie milizie combattono i terroristi, non è che la continuazione di una politica cinica d’un gruppo di potere pronto a vendersi come ha fatto sin’ora con Israele, con la Turchia, gli Usa e così via.
Il petrolio rimane il fulcro dei traffici che permettono di finanziare alla grande i mercenari che insanguinano Iraq e Siria. Non a caso l’aviazione russa ha colpito duro: il generale Rudskoy ha reso noto che dal 30 settembre, data di inizio dei raid, sono state distrutte almeno 2mila autobotti dei Daesh, aggiungendo che solo nell’ultima settimana sono stati colpiti 37 impianti di estrazione e raffinazione e 17 convogli che trasportavano greggio.
Secondo il Ministero della Difesa russo, l’Isis movimenta circa 200mila barili/giorno; i continui strike hanno tuttavia dimezzato i ricavi di questo traffico, portandoli da 3 ml a 1,5 ml di dollari giornalieri.
Mosca ha denunciato più volte il contrabbando di petrolio dei Daesh in cui è coinvolta la Turchia e la sua classe dirigente, famiglia Erdogan in testa, ma le sue accuse sono cadute nell’indifferenza di un’Europa pavida, tenuta dal “sultano” sotto il ricatto dei profughi che lui stesso ha provocato, alimentando le guerre in Siria ed Iraq.