Nella calda estate di quindici anni fa si spegneva a Firenze, Giovanni Semerano, uno studioso appassionato dell’etimologia delle parole, che ha impiegato trenta anni a costruire il suo capolavoro, “Le origini della cultura europea” in quattro volumi. Per lui e per la nostra cultura si sperava che avesse, almeno dopo la morte, quel giusto riconoscimento negatogli in vita perché la sua tesi, circa l’origine mesopotamica e non indiana delle lingue europee. Smontava un’antica tradizione e, con essa, una gran quantità di studi, di competenze, di libri, di cattedre e di potere.
Inizialmente professore di latino e greco a Firenze, quando, consultando i dizionari etimologici che sposano la tesi dell’origine indoeuropea delle nostre lingue, vede deluse troppe volte le sue ricerche. Gli viene il sospetto che non sia l’indiano il quadro di riferimento. Solo quando assume come quadro di riferimento la lingua accadica parlata nel Terzo millennio avanti Cristo in Anatolia, Siria, Mesopotamia dai mercanti e dai sovrani nei loro epistolari con i faraoni egiziani, quelle numerose etimologie “sconosciute” cedono il loro segreto. Abbandona allora la cattedra del liceo e si trasferisce come direttore prima alla Biblioteca Laurenziana di Firenze e poi alla Biblioteca Nazionale dove rimane per trent’anni.
Semerano partendo dall’accadico, decifra anche l’etrusco, ma la sua scoperta non ha alcun seguito e la scrittura etrusca rimase inutilmente avvolta nel suo enigma, perché allora la massima autorità accademica era l’etruscologo Massimo Pallottin che sosteneva l’indecifrabilità dell’etrusco.
Giovanni Semerano incontra Spadolini
Verso la fine degli anni Settanta, Giovanni Spadolini, conosciuto Semerano, gli commissionò una ricerca sull’etimologia della parola “Italia” che allora veniva resa come “terra dei vitelli” da “vitulus” (vitello). Semerano segnalò che la “i” di “vitulus” era breve, mentre la “i” di “Italia” era lunga e perciò era presumibile che la parola venisse dall’accadico “Atalu” che significa “terra del tramonto”, a cui corrispondeva la parola etrusca “hinthial” che vuol dire “ombra”. Fu allora che l’inviato in Italia del giornale inglese The Guardian si incuriosì del personaggio e lo raggiunse a Firenze. Lo intervistò uscendo poi con un titolo a tutta pagina: ‟An Italian Professor Finds Accadian Roots Under the Linguistic Tree” (un professore italiano scopre le radici accadiche sotto l’albero delle lingue).
La notizia sconvolse il mondo culturale anglosassone e lasciò indifferente quello italiano, ad eccezione dell’assirologo Giovanni Pettinato che, in qualità di capo della spedizione italiana in Siria, rinveniva ventimila tavolette della biblioteca di Ebla che, opportunamente tradotte, confortavano l’ipotesi di Semerano, di cui Emanuele Severino scrisse che ‟i suoi libri sono una festa dell’intelligenza”, mentre Massimo Cacciari riconosce che ‟alle straordinarie ricerche di questo solitario devo moltissime indicazioni per tutta la dimensione etimologica del mio libro Arcipelago”.
Ultimi lavori
Ultimi suoi lavori sono L’infinito: un equivoco millenario (2001), Il popolo che sconfisse la morte. Gli Etruschi e la loro lingua (2003) e La favola dell’indoeuropeo (2005) editi da Bruno Mondadori. Nel libro sull’Infinito Semerano dimostra che la parola di Anassimandro: “Apeiron” che è poi la prima parola della filosofia greca, e che come tutti sanno è nata in Asia Minore, non vuole dire “infinito” o “indeterminato” come vogliono Platone e Aristotele e, dopo di loro l’intera storia della filosofia, ma semplicemente “terra”, “polvere”, “fango”, dall’accadico “eperu”, vicino al semitico “apar”, da cui l’ebraico “aphar”.
Non c’è qui più affinità con il motivo della cultura semita, dove il Creatore plasma il primo uomo con l’“apar” con la polvere della terra e, dopo la maledizione divina, lo condanna a dissolversi nell’“apar”, nella polvere, di quanta non ce ne sia con la tradizione filosofica che rende “apeiron” con “infinito”, “indeterminato” e con tutte le implicazioni filosofiche che ne seguono?
di Cristina Amoroso