Funerali Casamonica, l’indignazione di un’Italia ipocrita – Video
Giovedì, a Roma, al Tuscolano, s’è svolto un rito squallido e pacchiano: i funerali del boss Vittorio Casamonica. Nel Lazio anche i sampietrini delle strade sanno chi sono gli zingari del clan omonimo: per dirla con le parole del generale Tomasone, a suo tempo caposede della Dia nella Capitale, si tratta del “più pericoloso gruppo criminale della Regione”, con almeno un migliaio di affiliati dediti a usura, estorsioni, traffico di droga, riciclaggio, con fortissimi interessi in attività economiche e commerciali come l’edilizia, la ristorazione, gli stabilimenti balneari e così via. Un gruppo talmente forte e intoccabile che anche la ‘ndrangheta dei Piromalli-Molé s’è alleata a loro.
Sono giunti a Roma negli anni ’70 dall’Abruzzo, con il benestare dell’allora onnipotente Banda della Magliana; da allora la loro ascesa è stata continua, spingendosi ben oltre i confini del Lazio malgrado le diverse inchieste aperte su di loro, grazie ad una fittissima rete di collusioni e complicità ad ogni livello. Si, anche questo sapevano tutti, la loro vera forza era il rapporto stretto, strettissimo, con la politica della Capitale e non solo, con numerosi (e potenti) spezzoni delle istituzioni, insomma, con la Roma che conta.
Quando la salma è giunta dinanzi alla chiesa di Don Bosco su un carro a tre pariglie, ad attenderla c’era tutto il suo popolo e non solo; c’erano anche i vigili concessi dal Comune per chiudere al traffico la zona e lasciare spazio alle esequie del “Re di Roma”. C’era la banda con le note del “Padrino” e pure un elicottero a spargere petali di rose.
E c’era la chiesa, la stessa che nel 2006 aveva rifiutato i funerali a Piergiorgio Welby perché aveva combattuto la sua battaglia civile per avere il diritto ad una morte dignitosa che lo sottraesse ad un’inutile sofferenza; la stessa che nel 1990 aveva tranquillamente celebrato il rito funebre per Enrico De Pedis, uno dei boss della Magliana; la stessa che adesso accoglieva il boss letteralmente ricoperta dalle sue gigantografie, che lo celebravano come re di Roma in procinto di conquistare anche il paradiso.
Adesso, dopo che la salma è partita in Rolls Royce fra i cori della sua gente, adesso s’è aperto il festival dell’ipocrisia: fioccano le dichiarazioni sdegnate e le interpellanze, mentre nessuno sembra essersi accorto di nulla, a cominciare dal parroco Giancarlo Manieri, che ha avuto l’impudenza di dichiarare che non sapeva nemmeno che la chiesa era stata totalmente rivestita dai colossali manifesti inneggianti al boss, e che comunque erano cose avvenute fuori.
Lo stesso prefetto Gabrielli non nasconde l’imbarazzo, e farfuglia di “un difetto di comunicazione”; supera se stesso il comandante dei vigili, Raffaele Clemente, lo stesso che ha concesso il servizio d’ordine, autoassolvendosi brusco con un “noi non abbiamo alcuna responsabilità”.
La verità che conoscono tutti, ma proprio tutti, è che a Roma da sempre, da molto prima che i media “scoprissero” Mafia Capitale, c’è stato e c’è uno strettissimo connubio fra delinquenza, amministrazione pubblica, politica e pezzi dello Stato per spartirsi una torta immensa in un intreccio di sordidi favori.
Chi si straccia ora le vesti e si spreca in dichiarazioni, prima ancora che ipocrita è patetico; il livello della Cosa Pubblica in Italia è rappresentato proprio dal rito tribale di quel pacchiano funerale hollywoodiano, dal vigliacco rimpallo di responsabilità dopo e dalla stucchevole sequenza delle reazioni a cosa fatte.