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Dopo 70 anni il Giappone chiede scusa alla Corea del Sud per la vergogna delle “donne di conforto”

di Salvo Ardizzone

È caduto l’ultimo ostacolo che impediva la normalizzazione dei rapporti fra Giappone e Corea del Sud. A settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone ha finalmente espresso le sue scuse ufficiali alla Corea per lo sconcio delle “donne di conforto”, le circa 200mila giovani, nella stragrande parte coreane, strappate alle famiglie e usate come schiave sessuali al seguito dell’Esercito giapponese fra gli anni Trenta e la fine del conflitto.

Queste disgraziate non solo subirono per anni stupri e violenze d’ogni tipo, ma tornate a casa (chi sopravvisse) furono coperte di vergogna ed emarginate da una società conservatrice che le rinfacciava d’essere sopravvissute a quella vita.

La Corea è stata per decenni assoggettata ad una dominazione coloniale giapponese dura e sanguinosa, finita insieme al conflitto e superata solo con l’intesa del ’65 che definiva i danni di guerra dovuti da Tokio per la sua occupazione. In quell’accordo, però, l’argomento delle tante donne schiavizzate a beneficio dei soldati non era stato toccato, continuando ad avvelenare i rapporti fra le due Nazioni ed impedendo la riconciliazione fra Stati divenuti nel frattempo due potenze economiche che avrebbero avuto molto da guadagnare da una collaborazione piena.

Seul aveva continuato a porre la precondizione del riconoscimento di quel crimine attraverso scuse ufficiali e un indennizzo per le superstiti, e dall’altra parte più volte i Premier giapponesi avevano toccato l’argomento, ma senza pronunciare mai parole chiare aderendo alle richieste coreane.

Per comprendere un atteggiamento incomprensibile a chi non è avvezzo alla mentalità dell’Estremo Oriente, le scuse ufficiali accompagnate dal pagamento di una somma (l’importo non è la cosa più importante) avrebbero comportato non solo l’ammissione piena della responsabilità di una pratica abietta e criminale, ma soprattutto la perdita della “faccia”, considerata a lungo inammissibile alla diplomazia giapponese, malgrado fosse consapevole del danno che ne derivava.

Finalmente, lunedì scorso, a Seul, il ministro degli Esteri giapponese Fumio Kishida ha presentato le scuse ufficiali al suo omologo sudcoreano Yun Byung-se, insieme all’offerta di un miliardo di yen (circa 7,6 milioni di euro) per le 46 superstiti. Contemporaneamente, il primo ministro Shinzo Abe ha telefonato alla presidente coreana Park per reiterare le scuse formali.

Immediata è stata la soddisfazione espressa da Washington per bocca del segretario di Stato Kerry, che ha salutato il gesto di conciliazione fra i due più importanti alleati degli Usa nell’area, perché questo è il punto.

La molla che ha spinto la diplomazia di Tokio a un gesto indigesto, che probabilmente reitererà con altri Paesi in attesa di riceverlo non solo per questioni di principio, sta tutta nella crescente tensione che continua a montare in Estremo Oriente a causa dell’imperialismo cinese.

La catena degli Stati minacciati dalle mire espansionistiche di Pechino, vedrebbero in Tokio il naturale perno locale attorno a cui saldare un’alleanza, ovviamente benedetta da Washington, ma il perdurare di antichi rancori mai del tutto archiviati hanno ostacolato un’intesa che era nell’interesse e nei desideri di tutti. E d’altronde, la stessa Cina ha compiuto molte delle sue provocazioni proprio nella convinzione che mai un’alleanza fra gli Stati rivieraschi del Mar Cinese si sarebbe potuta saldare attorno al Giappone.

Il gesto di Tokio che, ripetiamo, con tutta probabilità non rimarrà isolato, e che difficilmente sarebbe stato compiuto in una situazione diversa, è il termometro della tensione crescente che si sta sviluppando in quella parte di mondo, potenzialmente capace di innescare una crisi di dimensioni inimmaginabili.

È desolante constatare per l’ennesima volta come un’Europa sempre più succube quanto ridicolmente autoreferenziale, sia totalmente estranea a fatti e processi capaci di mutare il mondo intero.

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