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Libia, disinformazione e ipocrisia per mascherare la nuova impresa coloniale

L’avventura sanguinosa che la comunità internazionale ha apparecchiato in Libia, viene giustificata da una martellante campagna di disinformazione. Cancellerie, media, sedicenti esperti e politici disinformati quanto interessati, continuano a diffondere la menzogna che laggiù si debba andare per fermare l’Isis, per impedire che s’impadronisca di quel Paese.

E per verniciare d’ipocrita legittimità quell’intervento, è stata inventata l’incredibile bufala di un Governo di unità nazionale (trascurando volutamente il fatto che è la Nazione a non esistere) che dovrebbe chiedere d’essere aiutato, ovvero che la Libia venga di fatto occupata e spartita fra i Paesi (e le multinazionali di riferimento) che sbavano per le sue risorse. Insomma, la riedizione della sciagurata avventura di cinque anni fa, solo che da allora la situazione è enormemente peggiorata e si sono aggiunti pretendenti alle ricchezze celate sotto la sabbia di quei deserti.

Guerra per procura

Per chiamare le cose col loro nome, strappando la vergognosa trama di bugie che circonda l’operazione, vogliamo far riflettere su alcune cose. Primo: l’Isis, eterna scusa per giustificare ogni intervento armato, non è una minaccia seria e non sta affatto impadronendosi della Libia. Come è arcinoto alla comunità degli esperti e delle Intelligence, fra tutte le milizie presenti sul territorio è una delle più deboli e meno equipaggiate. In realtà, attorno a un nocciolo duro venuto dalla Siria e dall’Iraq, si è andato aggregando un miscuglio di bande criminali, fuoriusciti dalla formazione qaedista di Ansar Al-Sharia, elementi della tribù Qadadfa, quella di Gheddafi, tutti in cerca del denaro e della visibilità che deriva da un “marchio” prestigioso; a questi si stanno aggiungendo sbandati, foreign fighters e fuori legge da tutta l’Africa.

Stando alle stime più generose ed interessate a dipingere il fenomeno a tinte fosche, si parla in tutto di circa 8mila miliziani (ma realisticamente molti di meno) sparsi a macchia di leopardo sul territorio, quando una sola delle milizie avversarie, per esempio l’Unione dei Rivoluzionari di Misurata, ne concentra almeno 40mila assai meglio armati e organizzati.

Secondo: i cosiddetti “governi” di Tripoli e di Tobruk sono due sigle posticce, prive di qualsiasi potere, in mano ad alcune fra le milizie; è semplicemente spudorato ritenerli rappresentativi di qualcosa. Pensare che un qualsiasi accordo fra di esse, ammesso che sia mai raggiunto, possa avere non dico un minimo valore politico, ma assicuri soltanto un qualche consenso, significa mentire sapendo di mentire.

Terzo: laggiù da tempo si stanno muovendo tutti secondo la propria convenienza; la Francia, in pieno accordo con l’Egitto, vuole mettere le mani sulla Cirenaica scalzando l’Eni per sostituirla con la sua Total. Inoltre, da lì intende rafforzare il controllo sul Sahel da cui dipende per l’uranio e molti altri minerali. Per questo ha schierato le sue Forze Speciali accanto alle milizie del generale Haftar, l’uomo di Al-Sisi, permettendogli finalmente alcuni successi; per questo sta muovendo aerei e navi di conserva con l’Egitto.

In modo più discreto ma comunque deciso, l’Inghilterra è in azione a sostegno di Bp e Shell soprattutto in Tripolitania. Gli Usa, al solito, considerano tutta la Libia proprio territorio di caccia e manovrano con disinvoltura fra boss locali, milizie e attacchi aerei, senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze (la tragedia degli ostaggi italiani, e prima dei due diplomatici serbi uccisi dalle bombe degli F-15E a Sabratha, ne sono solo esempi).

Quarto: al di là di “governi” posticci che non rappresentano nulla, tutto si muove attorno alla National Oil Corporation (Noc), l’Ente di Stato che può dare fondamento giuridico internazionale ai contratti di sfruttamento delle risorse libiche; alla Central Bank of Libya (Cbl) che ha in pancia ancora riserve per circa 60 Mld di riserve ed alla Libyan Investment Authority (Lia), il fondo sovrano che gestisce circa 67 Mld di asset. In un Paese alla fame, è attorno al loro controllo che si muovono Potenze straniere e milizie.

Per essere ancor più chiari, una spartizione del Paese, meglio, delle sue risorse, è stata già tracciata fra Francesi, Americani, Inglesi ed Egiziani (tenendo in conto anche Emiratini e Turchi) da un canto, e le milizie maggiori che sul campo hanno la forza dall’altro. Restano e resteranno fuori una miriade di gruppi e bande minori, che continueranno i loro traffici criminali sulla pelle della gente di cui a nessuno importa.

Il saccheggio della Libia

Ovviamente, occorre una motivazione forte per dare il via a una simile operazione, e qui viene messa in scena la commedia dell’Isis: all’improvviso e senza che nessuno si opponga, né i 40mila armati di Misurata ad ovest, né gli oltre 20mila delle Petroleum Defence Guards (Pdg) pagate dalla Noc per vigilare su terminali e i campi petroliferi, un pugno di sedicenti Daesh s’impadronisce di centinaia di chilometri di coste, espandendosi verso l’interno e minacciando di distruzione le installazioni energetiche.

Lasciare quelle bande indisturbate, e permettere che attacchino i terminali incendiando depositi, costruisce la scusa perfetta perché la comunità internazionale si attivi, e si realizzino gli accordi già stipulati fra Potenze straniere e milizie.

Ma attenzione: il disastro del 2011 pesa ancora, così si è pensato di agire dietro il paravento di una missione guidata dall’Italia a cui addossare tutte le responsabilità: se l’operazione dovesse riuscire segnerà la fine dell’Eni in Libia; se dovesse naufragare, non solo avrà distrutto quanto resta degli interessi italiani in quel Paese, ma addosserà a Roma la responsabilità delle azioni e del fallimento di tutti.

Questo c’è dietro la nuova impresa coloniale in Libia; questo attende un’Italia che ancora una volta reggerà il sacco a chi calpesta i suoi interessi.

di Salvo Ardizzone

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