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Dalla Scozia alla Catalogna ritorna il sogno delle Piccole Patrie

di Salvo Ardizzone

L’11 settembre una folla incredibile, calcolata fra il milione e mezzo e i due milioni di manifestanti, ha riempito la Gran Via e la Diagonal, le due grandi arterie di Barcellona, trasformandole in un’immensa bandiera catalana; con una partecipazione sempre crescente, è dal 2012 che il giorno della Diada, la festa nazionale catalana, assume il carattere di protesta aperta contro il governo centrale.

Il 9 novembre il governo regionale avrebbe voluto tenere un referendum sull’indipendenza, ma nel marzo scorso la Corte Costituzionale ha stabilito che è incostituzionale e sulla scorta di quel pronunciamento, il parlamento di Madrid l’ha rigettato; solo con una modifica della Costituzione si potrebbe tenere ed avere effetto legale, ma è difficile che ciò possa avvenire, nella capitale e nel resto della Spagna sono in troppi ad essere contro. 

La Catalogna non è poi così grande, 32mila chilometri quadrati con circa 7,5 milioni di abitanti, ma è il motore economico dello Stato, e le altre regioni, Province Basche e Galizia escluse, sono contrarie ad una secessione che le priverebbe delle entrate fiscali catalane. Ma la Catalogna una Nazione è, non solo per tradizioni, identità, storia e cultura, ma addirittura anche per la lingua, visto che il catalano non ha nulla a vedere con il castigliano (quello che noi chiamiamo spagnolo) che si parla a Madrid e nel mondo.

Il fatto è che una sua secessione sarebbe un colpo durissimo per il resto della Spagna, e anche per il resto dell’Europa che vedrebbe un nuovo precedente, accanto a quello che si prepara in Scozia, capace di minare definitivamente l’unità di troppi Stati; per tutte basta citare la questione delle Fiandre in Belgio, della Bretagna e della Corsica in Francia e così via. Per questo sia una Bruxelles impaurita da un possibile contagio, che soprattutto Madrid e i suoi partiti nazionali, hanno eretto un muro sempre più alto man mano che le rivendicazioni dei catalani prendevano forza. 

Nel passato, soprattutto ai tempi di Zapatero, solo il blocco socialista aveva promesso concessioni sostanziali salvo lasciar cadere la cosa per non perdere i consensi del resto del Paese; per questo i partiti tradizionali hanno visto calar di molto il loro seguito in Catalogna; anche Convergencia i Unio, che aveva cavalcato l’indipendenza, a seguito di troppi scandali e fallimenti oggi è in declino, e la gente si rivolge a movimenti nuovi o più radicali come Esquerra Republicana de Catalunya.

Questo quadro di chiusura completa da parte del Governo e delle altre forze politiche nazionali, viene vissuto dai catalani con rabbia e frustrazione che, in assenza di possibili sbocchi politici, potrebbero determinare forti tensioni destabilizzatrici; insomma, un sopruso dettato dall’egoismo contro cui ribellarsi a cui s’aggiungono forti componenti identitarie e culturali: i classici ingredienti d’una rivolta dagli esiti imprevisti. 

Ancora una riflessione da questa vicenda: come abbiamo detto, è in tutta Europa che s’assiste al risveglio di Piccole Patrie che intendono divorziare da uno Stato centrale incapace di rappresentarne gli interessi, le aspirazioni, le identità. Non è qualcosa d’improvviso e nemmeno una coincidenza; è frutto d’un modello di sviluppo profondamente errato, il più delle volte imposto da meccanismi sovrannazionali ed applicato da classi dirigenti troppo spesso inette, che seguono comunque interessi particolari (centri di potere o lobby che siano) che nulla hanno a che spartire con i Popoli. In un simile contesto, è naturale che aree omogenee sviluppino forme identitarie marcate e rivendichino proprie autonomie, sia come difesa delle proprie collettività, che come rivendicazione di proprie vie di sviluppo.

In questo, i partiti tradizionali, quasi sempre collusi e comunque invischiati in reti di interessi che nulla hanno a che vedere con quelli della popolazione, sono necessariamente tagliati fuori; di qui il fiorire in tutta Europa di formazioni capaci d’intercettare questa crescente domanda di rappresentanza. Gli Stati centrali hanno abdicato al loro ruolo essenziale di tutela delle proprie collettività; ora sono le collettività, che attorno a comuni interessi si stringono in comunità, a mettersi in cammino per trovare strutture e realtà capaci di rappresentarle.     

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