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Crisi globale: i Paesi emergenti scricchiolano

A lungo hanno marciato come un treno, guardando con sufficienza le altre economie che tiravano la carretta: l’abbondanza di liquidità immessa sui mercati dalle banche centrali per parare gli effetti della crisi gli avevano fornito i capitali che non avevano, e l’impennata dei prezzi delle materie prime di cui disponevano gli avevano permesso di vivere di rendita per anni. Ma…ma la lunga festa ora pare finita.

Il mercato globale è una bestia strana, trasferisce gli effetti di un evento da una parte all’altra del mondo in modo imprevedibile e, visto che è tutt’altro che perfetto, imprimendogli distorsioni inaspettate. I contraccolpi della crescita rallentata nei Paesi emergenti hanno fatto tornare alla luce antichi fattori di rischio mai risolti delle loro economie: squilibri nei conti con l’estero, riserve valutarie in calo, rischi di instabilità politica, carenze negli investimenti ed altro ancora. Certo, nel loro insieme costituiscono tutt’ora un potente fattore di sviluppo dell’economia mondiale, ma hanno ancora molta strada (tanta!) da percorrere per divenire realtà pienamente affidabili e mature.

Ma cos’è accaduto? Niente di sconvolgente, ma sufficiente ad innescare le reazioni dei mercati: da un canto la Fed ha iniziato a rallentare il tapering (l’operazione con la quale riacquista bond federali e mutui più o meno deteriorati dal mercato, iniettandovi così liquidità), dall’altro diversi paesi dell’Eurozona manifestano segni di ripresa (Irlanda, Spagna, Portogallo, addirittura la Grecia) e attirano capitali. Inoltre la Cina, finalmente, ha alzato il piede dall’acceleratore, cominciando a rallentare gli investimenti a favore dei consumi interni, per riequilibrare un’economia fortemente squilibrata sulle esportazioni (occorre notare che un punto in meno di crescita degli investimenti in Cina, oggi, corrisponde a circa un punto in meno di valore aggiunto per i suoi fornitori nell’area; e se Malaysia, Indonesia e Thailandia sono strettamente dipendenti dall’economia cinese, in Africa e Sud America la Cina è il primo acquirente di materie prime, e il colpo si sente).

Di qui le turbolenze che hanno mostrato tutte le rughe mai curate di economie che hanno pensato che la festa dovesse durar sempre: la peggio messa pare l’Argentina; inflazione al 25%, 20 mld di $ di riserve valutarie bruciate nell’ultimo anno e riserve in valuta pregiata per meno di 30 mld, disoccupazione in aumento e politica dirigista in pieno fallimento. A seguire è la Turchia che scricchiola, con un Pil in frenata dopo la corsa degli anni scorsi, l’inflazione in ascesa e soprattutto un netto squilibrio fra i debiti a breve in valuta estera e le riserve in valuta straniera, che farebbe saltare tutto se i capitali prendessero bruscamente un’altra strada (e per inciso, le turbolenze interne della Turchia, suscitate dall’arroganza del premier Erdogan, sembrano fatte apposta per scoraggiare gli investitori stranieri).

Ma sono tutti i Paesi che ieri erano definiti “emergenti” ad essere in piena frenata strutturale: della Cina abbiamo detto (ed anche in precedenti articoli), ma anche l’India, il Brasile, la Russia e il Sud Africa stanno rallentando per un insieme di motivi: il primo fra quelli esterni ai Paesi è la fine del boom delle materie prime; fra quelli interni c’è (con l’eccezione della Cina che come detto altrove è un critico caso a parte) una cronica carenza di investimenti (in poche parole, nei tempi belli l’economia s’è finanziarizzata piuttosto di pensare ad investimenti infrastrutturali e reali che avrebbero dato sviluppo duraturo). Inoltre, fattore che li accomuna tutti, c’è un’instabilità politica e sociale diffusa in forte crescita, che spaventa i capitali esteri; e dato che tutti hanno un vistoso deficit nelle partite correnti (importazioni/esportazioni) in valuta estera a fronte di riserve valutarie spesso inadeguate, una fuga improvvisa di capitali (che in alcuni casi già si delinea) li metterebbe in crisi.

Intendiamoci, non tutti sono messi così male; due sugli altri sono e rimangono assai solidi: Polonia e Messico, che hanno saputo muoversi rifiutando di ubriacarsi nell’euforia dei tempi belli, ma per troppi è venuto il momento di sbracciarsi (se vorranno e sapranno farlo).

Il fatto è che tutti questi Paesi (con poche eccezioni come detto) hanno perseguito un modello di sviluppo funzionale ad un capitalismo aggressivo, basato sullo sfruttamento indiscriminato delle materie prime possedute e del lavoro a basso (o bassissimo) costo di cui potevano disporre. In troppi casi s’è trattato e si tratta di un capitalismo ancillare, funzionale alla speculazione altrui; si dirà che era un’occasione da sfruttare, d’accordo, ma la ricchezza prodotta, almeno in parte, doveva essere destinata allo sviluppo di attività correlate ai territori, capaci di intaccare le vaste aree di povertà e disagio sociale, di fare emergere progressivamente un numero consistente di imprese, di iniziative, insomma economia reale. Invece… invece troppe volte si è badato a lasciar le cose come stavano (lo sviluppo della società avrebbe fatto alzare i costi della mano d’opera, creato alternative imprenditoriali, occupazionali e tanto altro ancora) proprio per continuare la strada di quel capitalismo predatore. A farne le spese son sempre i territori.

di Salvo Ardizzone

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