Crisi: due parole semplici sul che fare
Dei mali messi a nudo dalla crisi tanto s’è detto, saltano agli occhi sotto i suoi morsi, e sui rimedi è una litania che recita parole vuote come riforme, conti in ordine, sviluppo, che ognuno poi riempie come vuole; non è un articolo la sede per dettare le ricette adatte a tirarci fuori dagli impicci, ma qualche riflessione si, la si può fare. Dovendo parlare di riforme e di sviluppo (i conti in ordine dovrebbero venir dopo, se non si vuol distruggere quel che resta dell’economia, come troppi esempi ci dimostrano e con buona pace degli interessati e arcigni signori d’oltralpe), occorre riflettere su due argomenti: ambito territoriale su cui operare e modello economico da applicare che vanno legati al nostro discorso.
Parlare del sistema Italia preso in sé, addirittura d’un ritorno alla lira, d’un chiudersi in se stessi per risolvere i problemi equivale a far come i bambini, che chiudono gli occhi per non vedere ciò che li spaventa; ma quello resta e va affrontato con decisione anche se fa male e tanto, perché se vogliamo uscirne bene, convinciamoci che nulla potrà mai essere come prima.
Il fatto è che gli attuali modelli di sviluppo, piaccia o no, impongono dinamiche supernazionali; il ruolo delle entità statali quali esse sono, è in crisi, e visto il quadro sarebbe interessante interrogarsi sulla funzione che oggi possano avere, fino a che punto oggi possa parlarsi di nazioni, ma non è questa la sede. Si dirà che gli stati dell’Europa sono, appunto, nell’entità Unione Europea: ma è un’entità omogenea? Risponde a radici culturali, sociali, modelli economici e di sviluppo simili? Obbedisce ad aspirazioni profonde, non ancora omologate tutte dalla globalizzazione, che possano essere assimilabili in un unico disegno? Non lo crediamo.
Chiunque abbia viaggiato un po’ sa quanta differenza ci sia da Narvik a Siracusa o da Lisbona al Baltico. Si dirà che la differenza sia ricchezza, ma non crediamo sia il nostro caso; no, la Ue è nata come disegno economico e commerciale (e per giunta assolutamente incompleto proprio perché era troppo difficile assimilare cose e interessi troppo diversi, come la crisi sta dimostrando), funzionale a un modello egemone imposto come che sia a tutti gli altri.
E se invece si ragionasse per macroaree? Se, nel nostro caso, si ragionasse su un’area mediterranea che comprendesse Portogallo, Spagna, Grecia, Italia e, perché no?, la Francia? Un’area assai più omogenea, con interessi, vocazioni, capacità di sviluppo anche infrastrutturale e logistico assai più assimilabili e vicine, che si collegasse sinergicamente con un’area orientale ed una settentrionale dell’Europa, nell’ambito di un chiaro progetto comune. Può sembrare una provocazione, ma se si guardano storia e cultura, aspirazioni e opportunità, assonanze e omogeneità di queste diverse aree, lo è assai meno.
C’è da intendersi: non vogliamo unirci alle voci di chi invoca la fine dell’Europa come progetto, sarebbe come abbandonare l’auto e tornare alla carrozza perché un pirata della strada, usandola, ha combinato disastri. Non è l’Europa ad essere il problema, ma il come è stata disegnata dalle convenienze e dai rapporti di forza, dagli egoismi e dalla voracità dei partecipanti, e soprattutto dalla debolezza (anzi, dalla mancanza) di un progetto politico di lungo respiro che vedesse in essa il fulcro di uno sviluppo complessivo di popoli e non dei meschini calcoli di consorterie.
È ovvio che a un tale cambiamento strutturale di impostazione le resistenze sarebbero tante, di tutti i poteri che a dettar legge e a guidar la musica anche in casa d’altri si sono abituati, ma credo sia una sfida obbligata se non si vuol essere un semplice tassello, sempre più insignificante, in un disegno imposto. Attenzione però, una simile strada è audace e dura, e in nessun modo implica un ritorno a vecchi e comodi vizi entro cui riadattarsi; come già detto, al passato non si ritorna, bisogna mettersi in gioco per una strada di sviluppo, la nostra, invece di farsene imporre una dagli altri.
E qui veniamo al secondo punto, il modello economico da applicare; abbiamo il capitalismo (parola carica di molte brutte cose, lo sappiamo, ma è quella) e ad essere realisti (abbiamo troppi guai per non doverlo essere), non credo sia il momento di provare ad inventare altre soluzioni. Certo, di guai ne ha combinati tanti, ma perché tante sono le vesti che ha indossato: da quello compartecipativo renano, a quello dei Chicago Boys che tanti disastri ha fatto per il mondo; di certo però non vogliamo quello delle tre “P”: il Predatore, il Parassita e il Piagnone.
Il capitalismo “Predatore”, anche se ammantato di modernità, ha come unico comandamento la massimizzazione del profitto a ogni costo; in genere devasta il territorio, prendendo in ostaggio le popolazioni e mettendole dinanzi al bivio fra sussistenza (ma quale?) e fame (il caso Ilva docet!). Oppure, con la finanziarizzazione delle attività, le “spolpa” e poi le getta via, senza occuparsi di bazzecole come occupazione o distruzione di ricchezza.
Il capitalismo “Parassita”, invece, sceglie un ambito in cui accomodarsi, e dietro parole come “ tutela dell’occupazione”, “settore strategico” o “italianità” (nel nostro caso) quasi sempre usate a vanvera, compra la protezione di una politica inetta e collusa dalla competitività e dalla concorrenza che lo spazzerebbero via. Sussidi, mercati regolati, ambiti protetti, servono tutti ad assicurargli utili che escono dalle tasche di un sistema Italia (sempre per restare al nostro ambito, ma altrove non è troppo diverso), costretto da lobby, centri di potere, ragnatele di relazioni, burocrazia opaca se non peggio, a pagar di più beni e servizi che valgono assai meno.
Il capitalismo “Piagnone” è quello con la testa all’indietro; quello che in un mondo che cambia vorrebbe restar fermo, a far le cose come ha fatto sempre; quello che quando sbaglia dà la colpa agli altri (ora alla crisi) e mai alla propria inettitudine, alla propria incapacità di fare impresa in un mercato che più non è lo stesso. È quello che pretende aiuti, che sbraita invece di pensare a un buon prodotto, ma buono per il mercato, non per lui.
Di queste forme di capitalismo abbiamo anche troppi esempi, che distruggono ricchezze e non le creano. E allora? Vorremmo un capitalismo che tornasse all’economia reale, che pensasse a produrre beni e servizi e badasse meno alla finanza; che allargasse la piramide della ricchezza, riducendo l’enorme sproporzione fra i redditi bassi e quelli alti; che puntasse a fare impresa col territorio. Basta con iniziative fatte per bruciare soldi, che sorgono per lucrare sussidi e contributi e per restare in vita inghiottono la ricchezza del sistema con il ricatto dell’occupazione. Basta con iniziative che violentano l’ambiente, iniziative che nessuno vuole altrove, che distruggono assai più di quanto danno (di petrolchimici, raffinerie e simili ne abbiamo già abbastanza). Basta con iniziative strampalate, che dietro la facciata rispettabile coprono interessi assai più pelosi (vedi ad esempio i parchi eolici realizzati dove non c’è vento).
Vorremmo iniziative che valorizzino le nostre realtà migliori: cultura, agroalimentare, turismo, puntando a fare qualità, ad essere riferimento anche per le altre aree che s’affacciano su questo mare. Vorremmo un turismo che non sia una Disneyland o un colossale parco giochi come altrove, la natura e secoli di storia ci hanno dato di più, molto di più, sta a noi usarlo. Vorremmo iniziative che s’accorgessero della posizione che la geografia ci ha regalato: una naturale base logistica e commerciale fra Medio Oriente, Africa ed Europa Centro Settentrionale.
Un libro dei sogni? Ma porca miseria! Perché quando si dicono due parole di semplice buon senso sul che fare, si deve passar sempre per visionari? Provarci è un obbligo, soprattutto in tempi che impongono cambiamenti.
di Salvo Ardizzone